Viaggio a Fairfax: la contea ricca già in fila per votare

In Virginia tra code, banchetti e "tifo" a un passo dai seggi

Viaggio a Fairfax: la contea ricca già in fila per votare
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A mezz'ora di auto da Washington D.C., nello stato della Virginia, si trova la contea di Fairfax, un'area abitata da oltre un milione di persone con un alto reddito pro capite. In Virginia, già quarantacinque giorni prima del 5 novembre, si è aperto il voto anticipato che è iniziato nel distretto di Mason giovedì scorso. Qui, nella sede del Mason District Government Center, una lunga fila di persone attende di entrare nella sala adibita al voto.

Già dall'esterno dell'edificio si percepiscono le differenze con le elezioni in Italia, nel parcheggio spiccano i cartelli con i nomi di Kamala Harris e Donald Trump accompagnati da quelli dei candidati democratici e repubblicani al Senato e al Congresso. Ma c'è un altro elemento impensabile in Italia: a pochi metri dal seggio (non possono essere meno di 40 piedi, circa 12 metri) si trovano due banchetti allestiti dai repubblicani e dai democratici in cui viene distribuito materiale elettorale. Nella contea di Fairfax, oltre alle presidenziali, si vota per tre referendum, due per contrarre un debito con cui finanziare spese per i trasporti e la sicurezza e uno per emendare un articolo della Costituzione dello Stato. La posizione dei repubblicani è contraria a una maggiore spesa pubblica mentre i democratici sono a favore, ma ciò che colpisce di più sono le «venti principali promesse del Presidente Trump» contenute nei volantini del Gop: si va da «sigillare il confine e fermare l'immigrazione illegale» a «un grande taglio di tasse per i lavoratori, e niente tasse sulle mance», fino al «taglio dei fondi federali per ogni scuola che favorisce la critical race theory, l'ideologia gender radicale, e altri inappropriati contenuti razziali, sessuali, o politici ai nostri figli».

Al seggio incontriamo Andres F. Jimenez, primo latino ad essere eletto Board Supervisor (sindaco) del distretto di Mason. Di origine colombiana, Jimenez ha lavorato nello staff del Partito Democratico a Capitol Hill e poi nello staff del sindaco di New York prima di essere eletto. Ci racconta con stupore che non è usuale vedere una fila di persone così numerosa al seggio già molti giorni prima del giorno ufficiale del voto. Gli chiediamo se la Virginia rappresenti o meno uno swing States: «Nel 2020 c'è stata una vittoria di Biden con un buono scarto, ma il nostro governatore è repubblicano. I democratici sono in vantaggio perciò non lo definirei uno swing state ma uno state of play, ovvero uno stato comunque non fuori dai giochi». Entriamo nella zona in cui si vota osservando il funzionamento del processo elettorale, i cittadini possono presentarsi al seggio senza il documento di identità ed è sufficiente un documento anche non ufficiale come per esempio una tessera con la propria fotografia. Dopo l'identificazione, gli scrutatori digitano il nome su un iPad e la scheda elettorale viene stampata sul posto.

È un lungo foglio fronte-retro con i nomi dei candidati alla presidenza e al parlamento e le indicazioni di voto scritte in inglese, vietnamita, coreano e spagnolo poiché secondo una legge dello Stato della Virginia, se una minoranza supera il 5% della popolazione, ha diritto al riconoscimento linguistico. Una volta presa la scheda gli elettori, riparati da alcune barriere di cartone con la bandiera americana e la scritta «Vote», scelgono i propri candidati. Prima di lasciare la zona facciamo un'ultima fotografia dalla strada all'edificio elettorale, ma un uomo sulla quarantina ci apostrofa urlando «che problemi avete? Cosa state fotografando?».

Facciamo finta di niente ma si avvicina una signora sulla settantina: «Sarà un complottista, questi sono gli elettori di Trump». Abbozziamo un sorriso, ma è l'esempio della polarizzazione e della tensione raggiunta dalla società americana alla vigilia del 5 novembre.

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