
Gaza è in queste ore una sfinge che interroga il mondo più impietosamente del solito: là, nella possibilità restauratasi in queste ore di un accordo, c'è lo scrigno del futuro, dalle decisioni delle giornate, delle ore a venire, dipende se il Medioriente, il mondo possano svoltare dalla guerra dei più di 600 giorni: l'eliminazione totale o parziale delle strutture nucleari e del disegno malefico degli Ayatollah che scatenò il 7 ottobre e poi il resto cerca una conclusione. Dunque Netanyahu parte domenica per Washington, le dichiarazioni sue e di Trump si incastrano, si inanellano, si contraddicono e si ricongiungono: Trump dice ieri che Israele è d'accordo per una tregua, che sarà bene che Hamas accetti la proposta Witkoff, per ora 10 rapiti vivi e 8 corpi, 60 giorni di tregua, perché qualsiasi altra, scrive in lettere capitali, sarà molto peggio. Hamas non risponde ancora, vuole ottenere tramite Qatar e Egitto, i mallevadori, che la tregua sia definitiva. Da Israele fluisce una seminotizia: potrebbe restare tregua e non pace, ma potrebbe essere sine die.
Netanyahu si muove con cautela, non è assediato all'interno, il suo successo recente non lascia spazi né a sinistra (Lapid) né a destra (Ben Gvir) per aggressioni politiche: parte e sa che ha in mano una pietra preziosa, si chiama pace di dimensioni mai viste, l'ha conquistata con le unghie e coi denti, ora niente azzardi, Trump è corso in aiuto contro l'Iran in uno scontro spettacolare, che non è ancora concluso. Lavora per sé e per Israele per i libri di storia. Trump e Israele trattano con la Siria e col Libano per arrivare a un'alleanza organica, occhieggiano persino all'Indonesia, il Paese musulmano con 240 milioni di abitanti, aspettano l'Arabia Saudita, la regina del patto di Abramo del futuro, che ora vuole la sconfitta di Hamas. Israele, e Trump lo sa, non può articolare nessun patto davvero significativo senza raggiungere due scopi: i rapiti a casa, e la sconfitta di Hamas. Sconfitta può significare tante cose: Ron Dermer è già al lavoro. Netanyahu ha affermato anche ieri che i due obiettivi della guerra a Gaza sono sempre quelli. Hamas è di fatto già a pezzi, come il capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha detto, non controlla il territorio priva com'è della leadership ormai eliminata. Gaza è distrutta, la metà dei suoi sono stati uccisi, la rapina degli aiuti umanitari è stata smascherata, i suoi padroni e finanziatori, Iran, Hezbollah, Siria di Assad si sono disseccati in battaglia. Come dice un analista israeliano, Amit Segal, Israele può accettare purché l'esercito resti sul bordo a proteggere le comunità e sul Corridoio Filadelfia contro il contrabbando dall'Egitto; può espellere i residui della leadership di Hamas; può ottenere un cambio di regime; mettere nell'accordo il permesso di reagire militarmente contro attività terroristiche. È realismo: restare legati agli Usa e tener conto delle infinite cautele indotte dalla presenza dei rapiti nei tunnel. Ogni ragazzo israeliano che combatte, come Janiv Michailovich di 19 anni ucciso ieri da eroe in battaglia, ha dentro di se un coraggio da leone e il sogno di liberare un rapito. Affronta la morte per quello.
Il dilemma può sciogliersi in un disegno vasto come quello che si prospetta, e comprende, dai rapiti all'Indonesia, quella pace larga per ottenere la quale domenica Netanyahu va all'aeroporto. Intanto, continuano le trattative.