L'ultima estate calda del generalissimo lasciato solo da tutti

L'ultima estate calda del generalissimo lasciato solo da tutti

ancavano poche settimane alla sua morte. Nell'agosto 1982 i grilli e le cicale facevano da colonna sonora all'ultima estate di Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri e prefetto di Palermo. Nella grande casa colonica che il generale aveva voluto comprare e ristrutturare, superando le resistenze della moglie, a Prata di Principato Ultra, sulle colline irpine, si ritrovava la famiglia allargata dell'uomo che aveva sconfitto le Brigate Rosse: le figlie Rita e Simona, il figlio Nando, i nipotini. I ricordi di Nando offrono squarci di serenità: le partite di pallone, le magliette di Italia e Brasile comprate dal nonno. Ma se poi si chiede a Nando «te lo sei goduto, tuo padre, in quell'ultima estate?» la risposta gela il sangue. «No. Fu un estate terribile. Si capiva benissimo che sarebbe finita in quel modo. Lui era disperato e inferocito, un leone in gabbia. Chiamava, chiamava, e nessuno gli rispondeva. Nemmeno De Mita, che abitava a pochi chilometri. Chiedeva appoggi, mezzi, qualunque cosa che lo facesse sentire meno solo nella missione che gli avevano rifilato mandandolo a Palermo. Niente».

Le vacanze del figlio di un carabiniere sono le vacanze di un apolide, di un bambino e poi di un ragazzo costretto a seguire gli spostamenti del padre. «Nei cinque anni del liceo cambiammo quattro volte città. Le vacanze le passavamo a prepararci al nuovo trasloco e alla nuova scuola. Papà faceva quel che poteva per ammorbidire l'atterraggio, organizzava gli amici che ci venivano a trovare per farci sentire meno soli. Era un padre molto attento». Invecchiando, come a volte accade, Nando inizia a somigliare a Carlo Alberto. Non ha più i baffi, che si era fatto crescere quando era stato arruolato come ufficiale di complemento nei carabinieri, «e quando andavo a fare ordine pubblico mi davano un po' di autorevolezza». L'ingresso del figlio, anche se solo per la naja, nell'Arma aveva tranquillizzato il colonnello, inquieto come tutti i padri dell'epoca sulle tentazioni cui il vento di ribellione di quegli anni esponeva il figlio. «Ma quando a diciott'anni volli andare a vivere da solo a Milano per iscrivermi alla Bocconi, lui, con stupore dei miei amici, aveva detto di sì. Unica condizione: non farti crescere la barba».

L'inizio e la fine, nelle vacanze dei Dalla Chiesa, hanno luoghi precisi: Mondello, la spiaggia di Palermo; e, venticinque anni dopo, la casa di Prata, «con le sue incredibili notti stellate e i due carabinieri della scorta che dormivano al pian terreno». A Palermo, Nando e le sue sorelle scendevano da Milano appena finita la scuola, «accompagnati dall'attendente di mio padre, che era siciliano. A Palermo c'era il nonno materno, Ferdinando Fabbo, anche lui ufficiale dell'Arma, che dopo il congedo era rimasto a vivere in Sicilia dove una figlia si era sposata. Per mio padre e mia madre, la vacanza vera forse erano i giorni in cui restavano a Milano, senza doversi più occupare di noi. Poi, a Ferragosto, anche i miei genitori scendevano. Il primo ricordo di papà in vacanza è lì, sulla spiaggia di Mondello. Nuotare gli piaceva, ma non ricordo di averlo mai visto in costume. Un ufficiale dei carabinieri, all'epoca, non andava in giro in mutande da bagno». Fu in quelle estati palermitane che il figlio imparò dal padre cos'era la mafia. «Mi accompagnava a vedere i villini di viale della Libertà che venivano fatti saltare uno dopo l'altro con l'esplosivo per fare largo al sacco di Palermo. Mi indicava le auto posteggiate che venivano distrutte per convincere i proprietari a usare i garage di proprietà dei clan: non era solo per i soldi, serviva a controllare il territorio, sapere chi andava e veniva».

Al nord, durante l'anno, era l'epoca in cui Dalla Chiesa scalava i gradi. Il terrorismo era ancora di là da venire, la famiglia abitava nella caserma milanese di via Moscova. Nando giocava a pallone nell'oratorio di Sant'Angelo, e il padre ogni tanto andava a guardarlo di soppiatto. «Il calcio era una sua grande passione, da ragazzo aveva anche giocato nelle giovanili dell'Atalanta, poi si era rotto una gamba e aveva dovuto smettere. Essendo l'unico figlio maschio, ero il suo complice predestinato per andare alla partita. Si andava all'Arena, dove si giocava in notturna, e mi ricordo il Santos di Pelè, questo gioco fantastico di palloni alti. Io ero milanista. Ma nel pieno di una epidemia di influenza si giocò un Milan-Atalanta. L'Atalanta era decimata, chiese di rinviare la partita, il Milan si oppose, giocò, e ovviamente vinse 5 a 1. Mio padre era scandalizzato. Mi costrinse a diventare interista».

Il rito delle vacanze siciliane, in quegli anni si interrompe una volta sola. «Nel 1961 mio nonno Ferdinando, che aveva fatto entrambe le guerre mondiali, volle portare la famiglia sui luoghi della Grande Guerra nel centenario dell'Unità d'Italia. Andammo dove il nonno aveva combattuto, sul Piave, sull'Isonzo. Fu un viaggio lungo e carico di emozioni, per noi e soprattutto per papà, che nei confronti del nonno e del suo vissuto aveva una sorta di devozione».

Il sogno della casa di Prata prende forma negli anni di fuoco del terrorismo, gli stessi in cui Dalla Chiesa fonda il reparto speciale che sgominerà il nucleo storico delle Br. Il generale è nel mirino, i suoi colleghi vengono ammazzati uno dopo l'altro. Proprio per quello nasce in Dalla Chiesa il bisogno di un luogo dell'anima, un ritiro dove tirare il fiato: e sceglie a Prata, che era il paese di suo suocero, il rudere che diventerà Villa Dora. «La vacanza vera per lui non era il mare, non era la montagna dove in quegli anni non mettemmo piede una volta. La sua vacanza era la campagna, perché suo nonno era di Fornovo, nel Parmense, e con i fratelli le estati le passavano lì, tra birichinate e giochi nei boschi. Questo clima lo aveva cercato di ricreare a Prata. La felicità per lui erano delle famiglie di amici che si trovano, mangiano, parlano tra di loro mentre i bambini scorrazzano in giro».

Ma l'estate del 1982 non fu un'estate felice. «Addosso c'era quella sensazione di tragedia incombente. Per tenerci su pensavamo: non possono ammazzarlo davvero, sarebbe troppo scoperto, troppo firmato. Ci sbagliavamo. Il 20 agosto papà scese a Palermo a commemorare il colonnello Russo, che era stato ucciso cinque anni prima alla Ficuzza, e subito infangato in ogni modo. Papà ritornò dalla cerimonia e disse: mi sono impappinato.

Il 26 agosto ci salutammo, il 3 settembre uccisero lui ed Emanuela. Lo stesso giorno era uscito il Mondo con una intervista al sottosegretario all'Interno che diceva: Dalla Chiesa? Un prefetto come gli altri».

Luca Fazzo

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