
"Pensare che sia possibile distruggere Hamas o farlo svanire è come tirar sabbia negli occhi dell'opinione pubblica". A dirlo, provocando non poco scompiglio, era stato, nel giugno 2024, il contrammiraglio Daniel Hagari allora portavoce delle Forze di Difesa Israeliane. A un anno e passa di distanza i fatti sembrano dargli torto. Hamas assediato in quanto resta della città di Gaza sembra non aver altra risorsa al di fuori degli ostaggi. Tunnel, arsenali e una forza militare stimata, prima dell'intervento israeliano, in circa 25/40mila combattenti sono in larga misura perduti. E le batoste subite dall'Iran e dagli alleati di Hezbollah, accompagnate dalla caduta del regime di Bashar Assad in Siria, ne rendono impossibile la ricostituzione. E altrettanto affievoliti sembrano l'appoggio finanziario del Qatar, quello politico militare concesso, seppur sotto-traccia, dalla Turchia e l'occulta disponibilità di altre nazioni mediorientali a chiudere un occhio (o due) sui traffici di armi.
Il segnale più evidente della "debacle" di Hamas sono i 20 punti del "piano Trump" accettati dai paesi arabi, Qatar e Turchia compresi. Quei 20 punti prevedono non solo il disarmo dell'organizzazione per mano di una forza di pace regionale, ma persino la sua messa al bando come entità politica. Insomma l'ideologia di Hamas considerata imperitura perfino dal più alto portavoce dell'esercito israeliano sembrerebbe destinata al cimitero della storia. E i primi ad accettarne l'ineluttabile destino sarebbero i suoi dirigenti pronti a comunicare già oggi ai mediatori egiziani e qatarioti il sì ad un "piano Trump" che definivano "largamente influenzato da Israele". Dietro l'inattesa disponibilità molti intravedono la mano di un Recep Tayyp Erdogan che ieri ha spedito a Doha il potente e fidato capo dell'intelligence Ibrahim Kalin chiedendogli di convincere anche gli esponenti più recalcitranti. Ma come sempre in Medioriente gatta ci cova.
Il segnale più evidente è la scappatoia dell'esilio che il "piano Trump" garantisce ai capi di Hamas pronti ad abbandonare la Striscia. Quanto basta a capire che Hamas sopravvivrà politicamente in capitali come Doha e Algeri pronte ad accogliere i suoi dirigenti in fuga. Esattamente quanto avvenne già nel 1982 quando Arafat e l'Olp, sconfitti in Libano, traslocarono nel nuovo quartier generale di Tunisi. Senza dimenticare padri, madri, fratelli, mogli e parenti dei 66mila caduti di Gaza. Un esercito di qualche centinaio di migliaia di familiari in lutto pronti a trasformarsi nel terreno di cultura su cui cresceranno migliaia di fanatici decisi a perseguire la strada dell'odio e della vendetta. E a ignorare i processi di deradicalizzazione della Striscia previsti dal "piano Trump".
Del resto la storia delle missioni di pace e dei loro insuccessi, Afghanistan in testa, ci insegna che un nemico sconfitto e apparentemente spazzato via può riprodursi nel giro di qualche anno. Anche quando a far la guardia ci sono eserciti occidentali ben armati e disposti a combattere per portare a termine la missione. Una disponibilità che - lo insegna il fallito disarmo di Hezbollah affidata dopo il 2006 all'esercito libanese - difficilmente ritroveremo nella "forza di pace araba" a cui spetterà il disarmo di Hamas e il controllo della Striscia.
Senza scordare che Hamas, nata da una costola della Fratellanza Musulmana, può comunque contare su padrini come il Qatar e la Turchia di Erdogan. Padrini pronti a dialogare nel breve periodo, ma poco disposti a rinunciare ai piani di lungo termine. Tra cui quello di un futuro Stato Palestinese improntato ai principi dell'Islam politico.