Magistratura

La violenza è "culturale" se il marito è islamico

Pm chiede l'assoluzione per anni di botte alla moglie: "Io umiliata anche dalla giustizia"

La violenza è "culturale" se il marito è islamico

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L'11 settembre del diritto è in una frase: «Maltrattare una donna è un fatto culturale». La richiesta di un pm di Brescia di assolvere un cittadino del Bangladesh, accusato di aver picchiato l'ex moglie per anni, scuote la politica e ripropone la tentazione di una parte della magistratura di «interpretare» la legge in chiave buonista, partorendo una fattispecie - quella dei reati culturalmente orientati punibili in Italia ma tollerati nel paese di origine - già demolita da altre sentenze. Una sorta di cancel culture del diritto che si consuma sul corpo della donna, un oltraggio alle bresciane Hina Saleem e Sana Cheema ma anche a Sanaa Dafani, Saman Abbas e a tutte le ragazze musulmane uccise perché innamorate dell'Occidentale. Altro che codice rosso, qui siamo al Corano che diventa legge di Stato. È Il Giornale di Brescia a ricostruire una storiaccia di maltrattamenti fisici e psicologici. Urla, insulti e botte di cui è vittima un'italiana di 27 anni di origini bengalesi, vissuta sin da piccola nel nostro Paese e madre di due figlie, che nel 2019 dopo anni di soprusi fa causa all'ex marito, un cugino residente a Milano e sposato con nozze combinate in patria dopo essere stata (pare) «venduta per 5mila euro» alla morte del padre, persino costretta a lasciare gli studi alle superiori e segregata per anni.

Per la Procura di Brescia (che già ne aveva chiesto l'archiviazione, ma il Gip l'aveva negata) «i contegni di compressione delle libertà morali e materiali dell'imputato sono il frutto dell'impianto culturale e non della sua coscienza e della sua volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l'uomo e la donna è un portato della sua cultura che la parte offesa aveva persino accettato in origine». Contattato dal Giornale, il procuratore capo Francesco Prete non parla.

«Sono stata trattata da schiava, picchiata, umiliata. Costretta al totale annullamento con la costante minaccia di tornare in Bangladesh», ha detto la vittima al Giornale di Brescia. «Essere di origine bengalese mi rende di meno valore dinanzi a questo pm?». C'è un'ampia giurisprudenza che affonda questa strampalata ipotesi buonista, (peraltro prodotta dallo stesso tribunale di Brescia), anche la politica, per una volta, si unisce in modo bipartisan: «Dal pm cultura patriarcale», è l'affondo di Valeria Valente del Pd, «aprire varchi è una deriva pericolosa in un momento di recrudescenza della violenza contro le donne», attacca la senatrice Fdi Susanna Campione. «Siamo al paradosso della mamma condannata per uno schiaffo alla figlia mentre i padri padroni sono legittimati da un intollerabile standard religioso», avverte Pierantonio Zanettin (Forza Italia). «Vogliamo tornare al delitto d'onore?», è la provocazione di Luana Zanella, (Verdi e Sinistra), mentre Stefania Ascari (M5s) suggerisce «una formazione obbligatoria per chi si occupa di violenza di genere». «La nostra cultura ripudia comportamenti barbari, chi li giustifica o li ridimensiona si commenta da sè», tuona su Instagram il vicepremier Matteo Salvini, mentre il deputato Fdi Riccardo De Corato si rivolge al Guardasigilli Carlo Nordio e invoca l'ispezione in Procura. «La libertà femminile va difesa nei fatti, sempre». scrive su Facebook il ministro per la Famiglia Eugenia Roccella. «Non posso pensare che l'Italia si permette a chiunque di far del male impunemente perché affezionato a una cultura dove la donna non conta nulla e l'uomo può su di lei tutto, anche porre fine alla sua vita. Solo per una questione di obbedienza culturale. Non può accadere», ha concluso la donna.

Come darle torto.

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