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La vita da film della "Signora" birmana dal martirio alle accuse di genocidio

Figlia di un padre della Patria, cresciuta all'estero, è diventata il simbolo della lotta alla dittatura militare al potere dal 1962

La vita da film della "Signora" birmana dal martirio alle accuse di genocidio

Nella vita, come nel Monopoli, può capitare di pescare la carta Imprevisti. Anche se probabilmente Aung San Suu Kyi non si aspettava di dover andare ancora una volta «in prigione senza passare dal via». Sperava che le cose nel suo Paese fossero cambiate; a quanto pare così non è.

Unica figlia del generale Aung San, padre della Patria che ha combattuto per l'indipendenza della Birmania dagli inglesi ed è stato assassinato nel 1947, Suu Kyi è cresciuta all'estero, al seguito della madre diplomatica. Nel 1964 si è trasferita a Oxford, dove ha conosciuto il marito e lì era rimasta mentre, dopo il colpo di stato del 1962, il generale Ne Win costruiva la via birmana al socialismo e isolava il Paese dal resto del mondo. Nel 1988 fece ritorno in patria per assistere la madre malata, fu la svolta della sua vita. In Birmania era l'anno dell'ennesima rivolta contro il Tatmadaw, il potente esercito che controllava la vita nazionale. Aung, forte del carisma dato dal ricordo della figura di suo padre, divenne la leader della principale forza di opposizione, la Lega nazionale per la Democrazia. «Come figlia di mio padre, non posso rimanere indifferente davanti a quello che sta accadendo», disse. L'anno successivo il suo partito stravinse le elezioni, ma la giunta non riconobbe il risultato e l'arrestò. Da allora fino al 2009 è stata confinata nella sua casa sulle sponde del lago Inya a Yangon, divenendo il simbolo della resistenza alla repressione militare, conquistando il Nobel per la pace, nel 1991.

Quando nel novembre 2010 è stata liberata su di lei si sono concentrate le speranze del mondo intero. Al momento del rilascio l'esperienza politica di San Suu Kyi era costituita da un nutrito rosario di premi internazionali e dall'aura mitica del suo cognome. Era la dissidente più famosa al mondo, portava fiori freschi nei capelli ed era tanto esile quanto fiera. Prometteva la libertà per i prigionieri politici e una politica nuova, che ponesse fine a 70 anni di guerre etniche lungo i confini del Paese. Leader dell'opposizione, dopo le elezioni del 2015 le prime libere in decenni ha assunto sempre più potere fino a diventare consigliere di Stato (per un cavillo ad personam non le è permesso di diventare presidente), guidando la transizione verso la democrazia in un Stato in cui i militari conservano ancora l'ultima parola.

Sembrava la storia perfetta, Luc Besson ne fece un film. Eppure è difficile trovare nella storia recente un personaggio che ha consumato in così poco tempo il suo prestigio. Gli oppositori l'hanno accusata di essere razzista come la maggioranza dei Bamar, l'etnia maggioritaria nel Paese, a causa dell situazione della minoranza di fede musulmana dei Rohingya: perseguitati, uccisi, cacciati dal Paese. Fine dell'idillio, almeno a livello internazionale.

Perché a casa, in Birmania, la questione è differente. Aung San Suu Kyi rimane The Lady, l'icona della libertà che ha lottato contro la dittatura dei militari. Ma il punto forse sta proprio qui, nel capire quale è il suo popolo, quello per cui ha lottato. La Birmania è un Paese frammentato, con oltre 130 etnie (il 30% dei 55 milioni di cittadini) tutte in perenne conflitto con lo Stato centrale. Mentre lei è Bamar e di radicata fede buddhista. Su questo - ma anche sulla questione degli oppositori dietro le sbarre e sulla libertà di espressione - la politica di Aung è naufragata. A tal punto che due anni fa è comparsa davanti alla Corte di Giustizia dell'Aia per difendere il suo Paese dalle accuse di aver perpetrato un genocidio contro i Rohingya. Andando contro l'evidenza ha difeso l'esercito, quello stesso esercito che l'aveva tenuta agli arresti per 30 anni. Un ultimo tentativo per preservare il fragile processo di normalizzazione della Birmania, hanno spiegato alcuni.

Si vede che non è bastato.

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