Cronache

"Una vita da indagato e sempre da innocente. Ma ora la pagheranno"

L'ex ad di Saipem, assolto la prima volta, ora è stato arrestato: "Accuse contro di me assurde"

"Una vita da indagato e sempre da innocente. Ma ora la pagheranno"

Finire da innocente nel tritasassi della giustizia è già una volta una esperienza sgradevole. A Pietro Tali i magistrati hanno concesso il bis. Nove anni fa, quando era amministratore delegato di Saipem, lo accusarono di corruzione internazionale. Era tutto falso, venne assolto con formula piena: e intanto vita e carriera distrutte. Ma Tali è uno che sostiene che «il lavoro è la cosa più divertente che gli uomini abbiano inventato», così si è rimesso a sgobbare: sempre nel campo dell'energia, stavolta non petrolio ma biomasse, elettricità prodotta con la legna. Neanche il tempo di cominciare e l'hanno incriminato di nuovo. «L'altra volta per Saipem ebbero il buon gusto di non arrestarmi. Stavolta non solo mi hanno arrestato ma mi hanno sequestrato tutto, l'azienda e la casa. L'azienda ovviamente fallirà. Io verrò assolto, perché è una accusa che non sta in piedi basata sulle parole di un truffatore. Loro sanno bene che sono innocente: da sei mesi hanno l'azienda in mano, hanno capito perfettamente come funziona il mercato delle biomasse, e sanno che di reati lì non c'è neanche l'ombra. Certo, era meglio se lo capivano prima di arrestarmi. Dovrebbero dire: scusate, abbiamo preso un granchio. Ma se mi prosciogliessero adesso farebbero una figuraccia. Verrò assolto tra cinque o dieci anni, quando di questa storia non si ricorderà nessuno. Però stavolta giuro che la pagheranno. Ho settantun anni e sono ostinato. Chi deve finire in galera ci finirà, chi ha commesso illeciti disciplinari ne risponderà al Csm».

Dopo l'assoluzione Saipem, Tali ha rilevato una azienda in Lomellina, la Biolevano. Business semplice, a suo modo green; si prende legname di scarso valore, si brucia, si produce elettricità, si vende al Gse, il gestore governativo. Lo accusano di frode allo Stato perché prendeva gli incentivi anche se la legna non veniva dalla zona. «Un capo d'accusa demenziale. Non hanno neanche letto la legge, non capiscono la differenza tra produttore e collettore della legna. Degli asini».

Perché ce l'hanno con lei?

«Davanti a uno che è nato ricco e ha avuto successo provano invidia e basta. Invece davanti a uno che viene da una povertà assoluta, arcaica, figlio di un pastore che non aveva fatto un giorno di scuola, e che ha raggiunto un po' di benessere, sanno pensare solo una cosa: avrà rubato. Gli inquisitori che ci vengono tramandati dai libri di storia erano persone malvagie senza nessun interesse alla ricerca della verità; e l'inquisitore esiste anche oggi, esisterà sempre perché è un prodotto della natura umana. Un esperto di sociologia umana potrebbe dirci se tale malvagità viene da un'indole, da un infanzia di soprusi o da che altro. Ma la figura dell'inquisitore non mi appassiona. Mi appassiona la reazione del pubblico. Ci sono momenti storici in cui l'inquisitore desta ribrezzo, e altri in cui la sua opera viene vista come salvifica. Sono i momenti in cui affermazioni come quella secondo cui non ci sono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti invece di fare orrore vengono accolte come arguti aforismi».

Come si vive da eterno indagato?

«Una accusa di truffa allo Stato, specialmente se le viene data rilevanza mediatica, ti trasforma in un appestato, uno che non può fare più nulla. Se vai in banca a chiedere un finanziamento ti dicono: guardi, se chiude il suo conto qui siamo più contenti. La parte più amara è la gente. Il novanta per cento dei tuoi conoscenti scompaiono, gente con cui avevi una amicizia fa finta di non conoscerti. Non lo fanno perché ti considerano colpevole. Hanno paura di queste Procure, capiscono che non c'entri nulla ma non vogliono correre il rischio di essere immischiati e di fare la tua fine».

Lei esclude che i suoi accusatori siano in buona fede?

«Mi è veramente difficile pensare che già prima di arrestarmi non si rendessero conto dell'assurdità delle accuse. Le regole degli incentivi sulle biomasse non sono il terzo segreto di Fatima, bastava una chiamata al Gse, cioè al governo, e gli avrebbe spiegato tutto. Invece per accusarmi di associazione a delinquere hanno dovuto basarsi su contratti firmati nel 2010, quando io la Lomellina neanche sapevo dove fosse. Ma ammettiamo pure che allora siano stati solo sciatti e superficiali. Adesso sono in malafede».

Lei dice: gliela farò pagare. È sicuro di riuscirci?

«A cinquant'anni si fanno le battaglie che si pensa di poter vincere. A settanta quelle che si devono a se stessi. Il 18 maggio 1969 partii dalla Sardegna, perché allora non c'era il reddito di cittadinanza. Mio padre mi salutò in sardo, l'unica lingua che conosceva, dicendomi: ti auguro di vivere la tua vita con dignità.

Ecco, diciamo che è una questione di dignità».

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