Che differenza c'è tra un pastore tedesco e un lottatore armeno? Nessuna. Tutti e due hanno un chip sottopelle. Il primo per essere identificato e il secondo perché non si dopi.
L'idea è di Mike Miller, ex-capo esecutivo della World Rugby Association e oggi alla guida della World Olympians Association, organizzazione che raggruppa 48 associazioni nazionali in rappresentanza di 100mila sportivi. Secondo mister Miller la tecnologia per una simile trovata già c'è e consentirebbe di tracciare i movimenti degli atleti e di monitorare l'assunzione dei eventuali farmaci illegali destinati a migliorare le loro prestazioni sportive. «Noi mettiamo i chip ai nostri cani - ha detto Miller a un forum sull'integrità e la responsabilità nello sport - e la cosa non sembra crear loro alcun problema. Quindi perché non ci prepariamo a fare altettanto anche con noi?». Secondo Miller «il problema con l'attuale sistema antidoping è che tutto quello che dice è che in un momento preciso non ci sono sostanze vietate nel sangue. Ma nessuno ci dice se non si sia barato in un altro momento e se si registrano cambiamenti nei marcatori». Miller ammette: «Non sono certo Steve Jobs ma credo che dovremmo spendere il denaro a disposizione per utilizzare la tecnologia più aggiornata». Perché il fine giustifica i mezzi: «Dobbiamo combattere i trucchi. Ci credo, dobbiamo fermare il doping con le tecnologie più avanzate. Ora qualcuno dirà che è una violazione della privacy. Ok, è il club degli onesti, e chi non vuole seguire le regole può anche non iscriversi».
Scettico l'amministratore delegato dell'antidoping britannico, Nicole Sapstead: «Accogliamo con favore ogni sviluppo tecnologico che possa aiutare la lotta al doping. Tuttavia possiamo esser certi che il chip possa non essere manomesso e che possa tenere sotto controllo tutte le sostanze vietate? Esiste un equilibrio tra il diritto alla privacy e la necessità di dimostrare che sei un atleta pulito. Incoraggieremo le ricerche nel fatto che sulle tecnologie in sviluppo che possono aiutare le organizzazioni anti-doping nella loro azione». Che assomiglia a una bocciature per il chip dell'atleta.
Magari non combatterà il doping, ma certo il chip sotto pelle sembra essere nel nostro destino. I suoi usi si moltiplicano e spesso per vantaggi non proprio epocali. In Svezia - è notizia di qualche settimana fa - i tremila cittadini che già hanno un chip sottocutaneo potranno caricarci i biglietti e gli abbonamenti della SJ, la locale compagnia dei trasporti ferroviari.
In realtà esistono già decine di migliaia di persone in tutto il mondo che sono di fatto dei veri cyborg, in parte uomini e in parte macchine. Sono ad esempio coloro che hanno deciso di acquistare i servizi della società australiana Chip My Life, che impianta microchip di due differenti tecnologie (la RFID e la NFC) in grado di interagire con differenti device e quindi di svolgere funzioni come aprire porte automaticamente, pagare, accendere e spegnere luci, fare il check-in all'aeroporto.
Qualche mese fa fece scalpore la decisione di una azienda del Wisconsin, la Three Square Market, di sostituire il tradizionale badge per l'accesso in ufficio con un chip sottopelle che ha anche il bous piuttosto discutibile di pagare gli acquisti di bibite e snack alle macchinette aziendali. Una scelta bizzarra per un'azienda di appena 85 dipendenti. Già due anni fa la compagnia svedese Epicentric aveva adottato questa tecnologia senza suscitare reazioni scandalizzate.
Forse perché entrambe le aziende, la americana e la scandinava, non hanno obbligato nessun dipendente ma hanno lasciato loro libertà di scelta. E più della metà di loro hanno scelto il chip. Anche perché la decisione è reversibile: il chip si può anche rimuovere. Un cyborg non è per sempre.
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