Se nei giorni seguenti lo scoppio delle ostilità in Ucraina l'attenzione degli analisti si era focalizzata sulle «divisioni» in seno al centrodestra, con il passare delle settimane appare sempre più evidente che le bombe su Kharkiv e Mariupol creano crepe in tutti gli schieramenti politici e in tutti i Paesi. Anzi, archiviato il gioco del rivangare le dichiarazioni putiniane (imbarazzanti, col senno di poi) di Salvini, Meloni e Berlusconi, emerge che il problema più profondo oggi è nella casa della sinistra.
L'assemblea dell'Anpi, con la spaccatura fra partigiani «rossi» irriducibili anti-Nato e partigiani «bianchi» sostenitori della solidarietà anche militare ai resistenti ucraini, era stato un primo campanello d'allarme. Ma i segni del riaffiorare dell'antica dicotomia in seno alla famiglia progressista si moltiplicano. «Che razza di sinistra è - si chiede l'ex segretario Cgil Sergio Cofferati - una sinistra che non è solidale con un popolo aggredito? Senza aiuti non ci saremmo liberati dal nazifascismo». Stessa posizione di Luigi Manconi, ex Lotta continua, che fa a pezzi una «logica che ci avrebbe fatto rinunciare alla Resistenza». La logica dei «No armi», dei grillini alla Di Battista, dei Fratoianni. Di quella sinistra solidale con gli oppressi di Hezbollah e Tupamaros, con gli zapatisti e i talebani, basta che dall'altra parte ci siano gli stramaledetti Yankee. Anche Miguel Gotor, storico vicino al Pd, bacchetta questo atteggiamento miope: «L'Anpi - spiega in un'intervista all'Huffington Post - è fuori sincrono sulla Nato».
Ma a guardare bene, l'Italia - che pure ha una lunga tradizione in tal senso, vedasi la crisi del governo Prodi con il caso Turigliatto - non è sola. Sulla crisi ucraina la sinistra è devastata ovunque. Ieri Gregor Gysi, ex presidente del Partito socialista unito della Ddr, ha accusato il suo partito Die Linke di «sconvolgente mancanza di empatia»: «Siete solo interessati a salvare la vostra vecchia ideologia, quella per cui la Nato è il male, gli Usa sono il male e il governo federale è il male». Un'ideologia che ha costretto la coalizione «semaforo» di Scholz a lasciar fuori Die Linke. Troppo rosso anche per un semaforo.
Tensioni ancor più forti scuotono il Labour in Gran Bretagna, dove il segretario Keir Starmer ha minacciato di espellere dal partito i firmatari di una lettera in cui si accusano la Nato - e di riflesso il governo Johnson - di aver causato il conflitto: «Nel migliore dei casi sono ingenui, nel peggiore aiutano i dittatori. Non c'è nulla di progressista nel solidarizzare con gli aggressori». La frattura tra i laburisti risale ai tempi del caso Skripal, quando l'allora segretario Jeremy Corbyn, esponente della potente «Stop the war coalition», da sempre arcinemica di capitalismo, Israele e Usa, non aveva condannato la Russia per l'avvelenamento della spia a Londra.
La campagna per le presidenziali ha invece un peso nella miriade di posizioni diverse dei leader progressisti francesi, ognuno chiamato a «vendere» una certa idea di sinistra. Così, se i socialisti di Anne Hidalgo sono schierati per le sanzioni e l'aiuto militare a Kiev, così come i Verdi, i movimenti più estremisti (La lutte ouvrière e La France insoumise) tuonano contro Washington. In particolare il comunista Jean-Luc Mélenchon ha detto di «comprendere» che la Russia si senta minacciata «da trent'anni di accerchiamento della Nato», teorizzando il «non allineamento» della Francia.
Neppure la Spagna è aliena dai dilemmi geopolitico-morali.
La decisione del governo socialista di Pedro Sánchez di unirsi alla Ue nell'irrogazione delle sanzioni a Mosca e nell'invio di materiale bellico ha causato la protesta di due ministri di Unidas Podemos, per cui «nuove armi non cambieranno le sorti del conflitto». Dura la replica del premier: «Il no alla guerra in Irak di ieri è il no alla guerra di Putin oggi». Vallo a spiegare a certa sinistra...
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