Promette una «lotta fino alla fine» Kamal Kiliçdaroglu, lo sfidante di Recep Tayyip Erdogan, in vista del ballottaggio del prossimo 28 maggio, strappato mettendosi alla guida della coalizione di sei partiti di opposizione nel voto di domenica per la presidenza della Turchia. «Il Sultano» ha sfiorato il 50% ma ha mancato l'obiettivo per un soffio, fermandosi al 49,5% (27,08 milioni di voti) contro il 44,9% di KK (24,56 milioni di voti), il 5,16% di Sinan Ogan (2,83 milioni) e lo 0,44% di Muharrem Ince. Il rivale di Erdogan adesso crede davvero di poter mettere fine al suo ventennio: «La nostra gente dovrebbe essere certa che vinceremo e porteremo la democrazia in questo Paese», ha detto ieri Kiliçdaroglu ai suoi sostenitori, per tenere alto l'entusiasmo in vista delle prossime due settimane. Quanto al presidente in carica, Erdogan si è mostrato sereno: «Se la nostra nazione ha scelto di andare al secondo turno, rispetteremo la sua volontà. Abbiamo 2,6 milioni di voti di vantaggio sul nostro rivale più vicino».
A dettare i temi dei prossimi giorni, in realtà, sarà il terzo incomodo e sorpresa di questa tornata elettorale, il candidato ultranazionalista Sinan Ogan, 54 anni, che con oltre il 5% dei voti potrebbe fare la differenza. Lui non si sbilancia ma indica le sue condizioni: lotta al terrorismo, nessuna concessione ai partiti filo-curdi (anzi pieno appoggio a chi garantirà la messa al bando del filo-curdo Hdp, terzo partito in Parlamento con il 10,5%, già a rischio chiusura dopo la richiesta alla Corte Costituzionale) e infine la cacciata dei rifugiati, 3,6 milioni di siriani che vivono in Turchia. «Quello che voglio è chiaro - ha spiegato Ogan - è la partenza dei siriani. Tutti i rifugiati devono tornare a casa. Voterò per il candidato che è d'accordo e mette in pratica questa politica». L'oppositore Kiliçdaroglu, che ieri ha visto il leader ultranazionalista e definito «molto positivo» l'incontro, ha già promesso di rispedirli tutti «a casa loro» in due anni, Erdogan lavora da mesi a un accordo con Assad per il loro rimpatrio. Ma è chiaro che la partita sul futuro politico della Turchia si giocherà anche su altri fronti. E il presidente in carica, ha diverse cartucce dalla sua parte.
Domenica, oltre al vantaggio nel voto per la presidenza, Erdogan è riuscito a confermare la maggioranza parlamentare anche grazie a una massiccia affluenza: è andato a votare l'89% dei turchi. Il suo Giustizia e Sviluppo, l'Akp, ha conquistato 267 seggi (35,58%) e si è confermato primo partito, spingendo a 322 il numero di parlamentari dell'intera coalizione pro-Erdogan. Il Chp, il Partito popolare repubblicano dello sfidante KK e del fondatore della Turchia moderna, Atatürk, si è fermato a 169 seggi (25,3%), per un totale di 213 per i sei partiti dell'Alleanza per la Nazione. Questo consentirà a Erdogan di vendersi come uomo della stabilità, di fronte a un avversario che, se vincesse, non potrebbe garantire piena governabilità. Tutto ciò nonostante l'Akp sia tornato ai consensi di circa 20 anni fa e la coalizione pro-Erdogan non abbia i 360 deputati per cambiare la Costituzione.
Ma le armi più potenti, dalla sua, «il Sultano» le ha mostrate nei venti anni di potere sempre più capillare e sempre meno controllato, rafforzato dal referendum che nel 2017, dopo il tentato golpe, ha abolito l'ufficio di primo ministro e trasformato la Turchia da Repubblica parlamentare a regime presidenziale, in cui Erdogan ha alzato a livelli illiberali il controllo su media, istituzioni e poteri dello Stato, oltre che sugli oppositori politici (110 arresti prima del voto). «Personaggi politici e sociali chiave sono in prigione persino dopo le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, la libertà dei media è fortemente limitata e c'è un clima di autocensura», ha spiegato Frank Schwage, capo della delegazione dell'Assemblea del Consiglio d'Europa, che ha supervisionato il voto.
Netta anche la conclusione della missione Osce: sono state «elezioni competitive», che hanno fatto emergere un «vantaggio ingiustificato» del presidente Erdogan, «segnate da restrizioni causate dalla criminalizzazione di alcune forze politiche».
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