«Lo strumento referendario - dice Gaetano Pecorella, grande penalista ed ex parlamentare azzurro - è sempre uno strumento difficile da maneggiare. In questo caso diciamo che sono stati fatti alcuni errori piuttosto vistosi, che hanno contribuito a determinare questo risultato».
Per esempio?
«Il più evidente è che la campagna referendaria aveva la paternità in una precisa forza politica, ovvero la Lega. Questo ha fatto sì che diventasse un terreno di scontro politico, gli avversari della Lega si sono schierati in blocco contro i referendum, i suoi alleati o si sono dissociati o sono stati tiepidi, alla fine il merito dei quesiti è come se fosse passato in secondo piano».
Altro errore?
«Mettere insieme dei temi su cui resto convinto che esista una forte sensibilità popolare, come quello sulla separazione delle carriere, con altri estremamente tecnici, difficili da capire per l'elettore anche di buona cultura. Se io domani vado al mercato e chiedo a una brava casalinga cosa pensa del sistema elettorale del Csm, quella probabilmente mi risponde: «Scusi, cosa sarebbe il Csm?». Poi c'era un quesito lontano dagli umori della gente: l'abrogazione della legge Severino. Sappiamo tutti come si rapporta l'elettore medio verso i politici inquisiti o condannati».
Bastano questi errori a spiegare una affluenza da pochi intimi?
«Quello che ha inciso molto, allontanando dall'interesse collettivo la scadenza, è stata la decisione della Corte Costituzionale di non consentire il voto sul fine vita: un tema che credo avrebbe attirato molta più partecipazione ai seggi del funzionamento dei consigli giudiziari, e che avrebbe fatto da traino. Ma la sostanza resta che ci sono stati errori di impostazione in un terreno complesso. Come si pensava di chiedere alla gente, in piena estate, con un periodo di guerra e di crisi economica, di appassionarsi a questi temi?»
È una sconfitta irreparabile? Questi temi sono archiviati per sempre?
«Per sempre no, ricordiamoci che un referendum sulla separazione delle carriere c'era già stato ed era già fallito, eppure il tema non è uscito dall'agenda. Quello che accadrà nell'immediato è che il flop del referendum darà fiato a chi vuole che nulla cambi, cioè la magistratura organizzata e la sinistra. Il cammino parlamentare della riforma Cartabia rischia di venire reso ancora più incerto. È una riforma timida, non prevede la separazione delle carriere ma solo delle funzioni, eppure anche questo piccolo progresso verrà osteggiato, diranno: «Vedete, il Paese si è espresso, dice che non vuole le riforme». Questo esito così clamorosamente negativo diventerà l'espediente per lasciare le cose come stanno.
Qualunque tentativo di mettere le mani all'ordinamento giudiziario verrà presentato come una operazione antidemocratica, diranno che il popolo ha già espresso la sua volontà non andando a votare, e che questa volontà va assolutamente rispettata.
Diranno: «State facendo una riforma che il paese non vuole».
Insomma il risultato finale è un bel guaio anche per il governo e la ministra.
«Fin quando il percorso avveniva nel chiuso delle stanze della politica delle possibilità che la riforma andasse avanti c'erano. Adesso cambia tutto».
Morale della favola?
«I referendum vanno fatti quando c'è la possibilità di vincere».
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