La web tax? Avvantaggia solo Pechino

Londra, Ankara e Delhi ci hanno già ripensato. Il senso dell'intesa tra Meloni e Trump

La web tax? Avvantaggia solo Pechino
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Il solito pollaio composto da cinque stelle, sinistrorsi e verdi ieri ha gorgogliato contro il presidente del Consiglio Meloni perché tra le intese propedeutiche alla distensione tra Italia, Ue e Usa non c'è solo l'impegno a maggiori acquisti di armi e di gas dagli Stati Uniti. Si tratta di beni scarsi sia nel nostro Paese che in Europa, un po' perché siamo poveri di risorse energetiche un po' perché la produzione non è sufficiente a coprire la domanda interna. Ecco, quindi, che l'asse dei progressisti Tridico-Bonelli-Fratoianni ha puntato il dito contro l'unica parte dell'intesa che ha una valenza più politica che economica, per quanto il suo peso non sia indifferente: la web tax, ossia la tassa sui servizi digitali che fa parte di vari accordi internazionali tra istituzioni come G7 ed Ocse.

Poiché l'imposta è declinata in maniera diversa a seconda dei Paesi che la applicano, è meglio parlare del nostro caso. In Italia la digital service tax ha un'aliquota del 3% sui ricavi realizzati nel nostro Paese da gruppi multinazionali con fatturato complessivo superiore ai 750 milioni di euro. Essa copre tre tipi di servizi: pubblicità, piattaforma commerciale e vendita di dati raccolti dagli utenti. Per come è strutturata è chiaro che colpisca le big tech americane come Amazon, Meta (Facebook), Apple, Microsoft e Google. Una sua declinazione interna che avrebbe colpito anche le pmi italiane è stata fortunatamente espunta dall'ultima manovra. Il gettito 2023 è stato di circa 400 milioni di euro. Sembrano tanti, ma è solo lo 0,02% del Pil italiano. L'incidenza quindi è bassa ma i danni non sono pochi, a partire dall'aumento dei prezzi che viene scaricato sull'utenza.

Il gettito non è trascurabile negli altri Paesi che la applicano: la Gran Bretagna ricava circa 800 milioni di euro, la Francia 700 milioni, la Spagna 300 milioni e la piccola Austria addirittura 100 milioni. Anche l'India aveva un buon gettito ma l'ha di recente cancellata per migliorare le relazioni con gli Usa e lo stesso percorso hanno intrapreso sia la Turchia di Erdogan che il gabinetto Starmer a Londra.

Gli svantaggi sono superiori ai vantaggi. In primo luogo, l'amministrazione Trump ha ritirato gli Usa dalla dichiarazione Ocse sul cosiddetto pillar one (il primo pilastro), quello che dovrebbe portare a una global minimum tax alle multinazionali sulla base dei ricavi che conseguono in ogni singolo Stato. Detto così (o come lo dicono Tridico-Fratoianni-Bonelli) sembra che Washington voglia fare dumping fiscale a scapito dei Paesi europei, ma in realtà la situazione è più complessa. Le aziende americane, infatti, pagano queste tasse e perdono competitività rispetto alle piattaforme cinesi come Temu e Shein che solo negli ultimi anni hanno cominciato a creare marketplace in Europa e che dunque fino a pochi anni fa sfuggivano a questa imposizione. Inoltre, l'export cinese non paga dazio perché la soglia per l'applicazione delle tariffe è di 150 euro e dunque non si applica praticamente mai alle spedizioni di basso valore provenienti da questi empori online del Dragone.

Insomma, la digital service tax nuoce tre volte. In primo luogo, a noi stessi che paghiamo di più. In seconda istanza, alle imprese americane che sono le più colpite.

In terzo luogo alle nostre produzioni visto che si avvantaggiano i produttori cinesi. Il governo Meloni non potrà cancellare la web tax tout court. Ma aver cominciato a parlare di un suo superamento è tutt'altro che negativo.

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