Chi ha vinto? Chi ha perso? E i risultati, in apparenza importanti, che alla fine si sono conseguiti come l'accordo Cina-Stati Uniti sulle limitazioni dei gas serra - sono reali o di facciata? Alla conclusione della tre-giorni diplomatica svoltasi a Pechino in occasione della Conferenza dell'Apec (l'associazione economica di 21 Stati rivieraschi del Pacifico), le domande sono più numerose delle risposte. Fin dall'inizio, la situazione è apparsa quanto mai intricata: il convegno prevedeva il primo incontro tra i tre uomini più potenti del mondo, il cinese Xi, l'americano Obama e il russo Putin, tra cui non corrono in questo momento buoni rapporti. Per giunta, esso è stato preceduto da parte cinese da una raffica di accuse al vetriolo contro l'America, perentoriamente invitata a «mollare la sua presa sull'Asia», a cessare di tramare contro il partito comunista e di fomentare i disordini di Hong Kong.
Sullo sfondo, una spietata competizione tra la Cina, che punta a creare una grande zona di libero scambio nell'Asia orientale che escluda gli Stati Uniti, e questi ultimi che hanno invece come obbiettivo una «Partnership transpacifica» di 12 Paesi senza i cinesi. Il bilancio finale è almeno in apparenza - a favore di Pechino. Obama e Putin hanno avuto solo un brevissimo e gelido incontro a quattr'occhi, in cui si sarebbe anche parlato di Ucraina ma che non ha risolto nulla. Xi, invece, ha nello stesso tempo consolidato i suoi rapporti con la Russia e stretto una serie di accordi con Obama, culminati in una conferenza stampa congiunta in cui, per la prima volta ha accettato di rispondere (sia pure con molte reticenze) alle domande dei giornalisti occidentali. Il primo accordo, che però per molti è troppo generico, prevede che l'America riduca le emissioni di gas serra del 26-28% entro il 2025 in cambio dell'impegno cinese a cominciare a ridurre le proprie tuttora in aumento - a partire dal 2030.
Obama ha salutato questa intesa con enfasi («Quando Stati Uniti e Cina lavorano bene insieme, tutto il mondo ne trae vantaggio»), ma a Washington i repubblicani l'hanno subito criticata come dannosa per l'industria americana. In effetti Xi, che a sua volta ha esaltato l'intesa, ha assunto un impegno assai più vago, e può usarlo a fini interni per calmare una opinione pubblica che non tollera più lo spaventoso inquinamento provocato dall'industrializzazione selvaggia dell'ultimo ventennio. Gli altri accordi di rilievo riguardano l'estensione dei visti tra i due Paesi da uno a cinque-dieci anni, l'eliminazione delle tariffe doganali sui prodotti tecnologici e una serie di accorgimenti per evitare che le scaramucce aeronavali che si sono succedute recentemente nei mari della Cina degenerino in un conflitto. Per Xi, che ha molto rafforzato il suo potere negli ultimi mesi, assumendo il controllo dei principali comitati che decidono la politica del partito, il vertice dovrebbe tradursi in una boccata di ossigeno in un momento non facile per il regime: l'economia sta rallentando, Hong Kong, il Tibet e lo Xinjiang sono in fermento e il malcontento popolare per la corruzione dei funzionari e il crescente divario tra ricchi e poveri, pur mantenuto sotto traccia con pugno di ferro, è in rapida crescita. Ma, per accomodare gli ospiti, tra cui l'odiato premier giapponese Abe, ha dovuto mettere almeno per l'occasione molta acqua nel vino del suo nazionalismo, che era stato fin qui l'arma principale per incanalare e controllare il dissenso.
Dal canto suo Obama, indebolito dal voto di midterm, ha approfittato dell'occasione per dimostrare che, almeno all'estero, non è ancora un'anatra zoppa. Tuttavia, ha ritenuto prudente evitare di evocare il problema dei diritti umani, è stato vago su Hong Kong («un affare interno della Cina») e ha dovuto assicurare a Xi che la sua decisione di rafforzare la presenza americana in Asia non vuole essere in alcun modo una minaccia per Pechino.
E con Putin, che rivedrà tra un paio di giorni al vertice del G20 in Australia, ancora una volta, non ha combinato nulla.Intanto, ieri, Mosca ha annunciato l'invio dei suoi bombardieri strategici, capaci di trasportare ordigni nucleari, fino ai confini americani.
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