Zaporizhzhia, nucleare ostaggio di Putin

Lo Zar vuole riaccendere la centrale: allarme radiazioni. E Scholz manda nuovi Patriot a Zelensky

Zaporizhzhia, nucleare ostaggio di Putin
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Vladimir Putin non ha nominato date, ma la decisione è presa: l'impianto nucleare di Zaporizhzhia il più grande dell'Ucraina con i suoi 6 gigawatt, ma finito nella zona occupata dai russi nelle prime fasi dell'invasione verrà fatto ripartire. La gigantesca centrale, che sorge nei pressi dell'altrettanto gigantesco fiume Dnipro, è di fatto pressoché spenta da tempo ed è al centro non solo di preoccupazioni internazionali sul rischio di un incidente nucleare, ma di un'inquietante e ambigua situazione dal punto di vista bellico.

La notizia è stata data dal Wall Street Journal, secondo cui Putin avrebbe comunicato la sua intenzione già il mese scorso a Rafael Grossi, responsabile dell'Agenzia atomica dell'Onu (Aiea) che era venuto per incontrarlo a Sochi sul Mar Nero e che invano da tempo insiste per la creazione di una zona smilitarizzata intorno alla centrale. Per mesi, Mosca e Kiev si sono rimpallate le responsabilità su attacchi con droni che hanno interessato l'impianto, che è pure circondato da campi minati: nelle scorse settimane uno dei sei reattori era stato colpito.

Una guerra di propaganda che si svolge mentre la Russia, approfittando delle crescenti difficoltà della difesa anti aerea di Kiev, sta sistematicamente devastando le principali infrastrutture energetiche ucraine. Pochi giorni fa, la distruzione della grande centrale termica di Trypilska nei pressi della capitale ha provocato danni senza precedenti. Il governo ucraino assicura che fino al prossimo inverno il bombardamento non provocherà problemi gravi, nonostante Trypilska servisse ben tre regioni del Paese: «Dovremo fare l'impossibile, lo abbiamo già fatto in passato per riparare i danni di queste aggressioni barbariche, ma è chiaro che abbiamo bisogno di rinforzare le difese aeree».

La situazione è sempre più difficile e, dal punto di vista politico, drammaticamente chiara. Il presidente americano Joe Biden insiste da mesi, invano, perché il Congresso di Washington autorizzi con un suo voto lo sblocco di una enorme fornitura militare all'Ucraina del valore di 60 miliardi di dollari. A differenza della Russia, gli Stati Uniti non sono una dittatura e il presidente non può imporre le sue scelte se i parlamentari non le approvano. Ecco dunque che il popolo ucraino aggredito dalla Russia si trova ostaggio del cinismo di Donald Trump, che ha la maggioranza al Congresso e ritiene di trarre un vantaggio politico per la sua rielezione alla Casa Bianca negando spese militari per una guerra difensiva in Europa: la sua retorica afferma che non sia interesse di Washington investire in una guerra su un fronte lontano. Un certo genere di elettorato americano apprezza queste politiche di Trump, il quale però non sembra dotato di sufficiente lungimiranza e non capisce che, se l'Ucraina sarà sconfitta, Putin alzerà le sue pretese su quella che sfacciatamente definisce «la sicurezza nazionale russa»: ovvero pretenderà che la Nato faccia dei passi indietro ai confini orientali, innescando così l'esatto contrario della sicurezza in Europa.

Europa che fa quel che può, cioè poco.

Ieri Berlino ha annunciato l'invio di una nuova batteria di missili Patriot, cruciale per la difesa dell'Ucraina. Il presidente Zelensky ha ringraziato il cancelliere tedesco Scholz, ma è chiaro che così non si risolvono i problemi.

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