"Zweisamkeit" è una "duitudine" che rende soli

I tedeschi hanno un termine che dà senso alla tragedia

"Zweisamkeit" è una "duitudine" che rende soli
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C'è la solitudine per il fatto di essere soli. E la solitudine per essere in due. È una sfumatura che solo l'anima tedesca ha cristallizzato in parole diverse: Einsamkeit, la solitudine come la consociamo noi, è costruita con il numero uno (eins), fino a diventare "unitudine"; la Zweisamkeit, un termine inesistente in qualsiasi altra lingua, potrebbe essere invece "duitudine".

Di Zweisamkeit, specie su giornali e riviste del cuore, in Germania si parla di solito in termini poco meno che entusiastici, soprattutto per quanta riguarda i rapporti romantici: può essere lontananza rispetto all'estraneo ma è anche mutuo senso di appartenenza rispetto al partner, la sensazione di condividere ogni cosa, di essere, davvero, un corpo e un anima, pur rimanendo distinti.

Alice ed Ellen Kessler, non c'è dubbio, vivevano in stato di "duitudine" profonda: vite (due, ma quasi una) inseparabili, il terrore di morire l'una prima dell'altra, il desiderio di essere sepolte insieme, in un'unica urna, accanto alla tomba della madre.

La loro fine tragica apre uno spiraglio sui lati meno luminosi della "solitudine a due": la sicurezza e la gioia di condividere l'esistenza con uno spirito affine possono finire con il circoscrivere la significatività del mondo che si muove fuori dalle finestre. Di solito non succede tra sorelle (o fratelli) e nemmeno tra gemelli: le coppie che più soffrono di Zweisamkeit sono quelle elettive, mariti e mogli, partner che si sono scelti e che non sopportano di finire senza l'altro.

Con Alice ed Ellen non è stato così: per 89 anni hanno vissuto una vita piena, il cui baricentro è rimasto lo stesso: il rapporto tra di loro. Nel crepuscolo dell'esistenza l'essere una per l'altra è diventato l'unica cosa che contava.

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