Gian Marco Chiocci
nostro inviato a Messina
Cosa centra la mafia con la volontà del principe ereditario saudita Bin Nnawaf Bin Abulaziz Al Saudm di anticipare e finanziare per intero la costruzione del Ponte di Messina, è un mistero. Non se ne capacita né linteressato, che fra laltro è anche ambasciatore di Riad in Italia, né il suo socio in affari, limprenditore Giuseppe Zappia, arrestato alletà di ottantanni quale «faccia pulita» di una presunta organizzazione mafiosa capeggiata dal boss canadese Vito Rizzuto, vicino ai narcotrafficanti Cuntrera-Caruana e alla famiglia newyorkese dei Bonanno.
Linchiesta della procura di Roma sulle cosche dello Stretto che lo scorso febbraio ha portato allarresto di cinque persone, al processo del prossimo 16 marzo rischia di non reggere al vaglio delle prove: la circostanza secondo la quale la società Zappia international era sicuramente foraggiata con proventi mafiosi verrebbe infatti messa in dubbio da lettere, protocolli e contratti in joint venture nonché affidavit con la Tatweer International Co - Kingdom of Saudi Arabia del principe ereditario. Carteggi dai quali si evincono due cose. Primo: a investire cinque miliardi di euro per costruire il Ponte sarebbe stato solo ed esclusivamente il principe arabo, e non un boss canadese, peraltro squattrinato. Secondo: limprenditore Zappia avrebbe dovuto ricoprire solo il ruolo di supervisore sul campo, seguire i lavori con costi e tempi tecnici di realizzazione inferiori del 50 per cento rispetto al resto delle offerte, assemblando pezzi prefabbricati allestero, senza ricorrere a subappalti, pensando anche a richiedere lintervento dellEsercito a tutela dei cantieri per scongiurare reazioni delle cosche escluse dalla torta. Nonostante laffidavit del principe, esibito al gip dallavvocato Gian Antonio Minghelli, difensore dellimprenditore, la procura resta comunque dellidea che Zappia sia il terminale, il colletto bianco, dellorganizzazione mafiosa: «La presenza di un finanziatore arabo - si legge nellultima ordinanza - non esclude la contestuale presenza di interessi mafiosi riconducibili al boss Vito Rizzuto, come ampiamente dimostrato dalle intercettazioni». Per capire di quali interessi e di che razza di intercettazioni si parla, occorre sfogliare a ritroso il calendario fino a quando la Dia e la procura di Roma ricevono dal Canada linput a indagare sullentourage di Zappia («di questa asserita segnalazione però non cè traccia in atti - ribatte Minghelli»). Tantè. Il 20 novembre 2002 il principe saudita, il suo segretario-fiduciario Sivalingam Sivabavanandati e Zappia vengono pedinati fin dentro lhotel Hilton di Roma. A quellepoca il costruttore italiano era noto per aver costruito il villaggio olimpico di Montreal, numerose strutture negli Emirati Arabi, nonché i campi-base poi utilizzati dallesercito americano per la guerra in Irak. La società del principe vantava già la realizzazione di ponti in ogni angolo del mondo. Limpronunciabile «Siva», invece, era un signor nessuno. Come perfetti sconosciuti risultavano altri due personaggi emersi dalle intercettazioni: tal Filippo Ranieri, factotum immobiliare di Zappia in Canada, e un certo Hakim, faccendiere algerino.
Nel periodo incriminato Zappia aveva un aspro contenzioso immobiliare per un credito da un miliardo e 700 milioni di dollari con gli Emirati Arabi. Pur di ottenere lintera cifra si rivolse a tanti, promettendo ricompense con percentuali iperboliche. Arrivò a scomodare il presidente del Marocco, quello siriano, il re di Giordania, persino Arafat e il generale in capo dellesercito Usa ad Abu Dhabi. Citò gli insolventi Emirati di fronte alla giustizia americana. Era disperato. Tanto che - questa è la versione che fornisce al pm - si affidò anche allalgerino Akim, conosciuto a Londra, che dopo aver fiutato laffare, millantò amicizie saudite e contemporaneamente trattò segretamente col boss Rizzuto per finanziare loperazione e dividere la provvigione.
Bene. A questo punto succede di tutto. Intercettazioni che evidenziano interessi mafiosi sullo Stretto, a detta della procura. Intercettazioni che fanno riferimento a tuttaltro, secondo la difesa. Eppoi altre intercettazioni, queste sì sconvolgenti, dove Rizzuto parla in codice con Zappia. Ma non è lo Zappia del Ponte, è un omonimo che sta a Milano, non è nemmeno suo parente ed ha, lui sì, precedenti penali evidenti. È il caos. Nel frattempo, per un cavillo, Zappia e il principe restano fuori dal bando del Ponte. Quando è imminente la decisione sul ricorso, bussa la Dia con una richiesta darresto per cinque. In cima alla lista ci sono i «canadesi» Rizzuto e Ranieri, che ad oggi - così dicono i loro avvocati - non hanno ricevuto alcuna ordinanza di custodia cautelare.
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