Il pop tra arte e musica: come è nata un'epoca

Non solo Andy Warhol. Andrea Mecacci si insinua nelle pieghe del postmoderno per fornire al lettore gli strumenti necessari per comprendere i misteri che si nascondono in capolavori tanto familiari da sembrare scontati

Ha il sapore di qualcosa di terribilmente inflazionato, oggi, la parola pop. E, per ciò stesso, di un impoverimento del significato. Pop come abbreviativo di popular. Popolare. Qualcosa di diffuso. Comune. Ricorrente. Vicino. Ma questo è solo l'ultimo stadio del logoramento di un vocabolo. Perché anche i lemmi invecchiano. Anche i termini perdono forma. E si deteriorano. Eppure hanno una storia. Una vita. E pop non è ciò che attribuiamo oggi a queste tre lettere che occupano lo spazio di tre tasti battuti sul computer. Pop è un concetto. Un'idea. Una corrente artistica. Pop art, appunto. Che poi fa rima con Andy Warhol, ma questa è un'altra storia. O forse è solo una parte, seppur importante, della storia. Una storia più complessa di quanto semplicisticamente la si voglia ridurre.
Allora per comprenderne l'essenza - e di conseguenza rendersi conto di quanto siamo lontani oggi dal significato vero di pop - è utile leggere il volume di Andrea Mecacci, docente di estetica alla facoltà di architettura a Firenze, dal titolo «Estetica del pop - Teorie e miti della cultura di massa» (Donzelli editore, pp. 200, euro 24.50). Perché l'autore mette appunto il pop in correlazione all'idea di cultura di massa evidenziando i rapporti tra l'uno e l'altra, oltre alla presa e all'attrito che esse esercitano sul pubblico. Perché, se è vero che pop nasce per essere applicato all'arte figurativa, è anche vero che esso si è riverberato con particolare enfasi in altri versanti, come la musica. Solo cinema e letteratura ne sono rimasti ai margini, proprio perché i canoni su cui si regge il pop risultano assolutamente estranei ai cromosomi dell'arte sottesa all'immagine in movimento e al linguaggio scritto.
Pop è insomma ciò che è talmente familiare da trasformarsi in arte senza che se ne abbia necessità di spiegazione. E' la vita. La nostra vita. Qualcosa che non necessita di interpretazioni, un'immagine che appare immediatamente comprensibile e riproduce oggetti o prodotti di uso corrente. Da qui alle Brillo boxes di Warhol il passo è breve. Anzi brevissimo. Come le Campbell soup cans. Qualcosa che gli americani, tutti gli americani, di qualsiasi censo ed estrazione, consumano abitualmente. O le four Marylin. Ma gli esempi potrebbero proseguire con Flag di Jasper Johns, nelle sue numerose versioni differenti. E sconfinare in ambito musicale, dove i casi sono tanti. Come le note che escono dai cervelli e dalle chitarre di John Lennon e Paul Mc Cartney. Dalla fisarmonica di Bob Dylan. Dai passi di danza del moonwalker, Michael Jackson. Dalle finte vergini di Louise Veronica Ciccone, in arte Madonna. Il processo del pop è la vita, quel noi che talvolta diventiamo pop in ogni gesto che può sembrarci superficiale. Persino irrilevante. Abituale. Come la cultura pop, qualcosa di simultaneamente e universalmente condivisibile e realizzabile da infinite platee. Un riflesso del secondo Novecento di cui ricorda aspetti, gusti estetici, risvolti di vita tanto familiare da sembrare scontata. Come il volto di Norma Jean. Stereotipato tra colori e colpi di rossetto perché, come scriveva Warhol, «il pop è amare le cose».

Al quale faceva eco, negli anni, forse l'ultima diva pop, ancora in circolazione, Madonna: «Il pop è il riflesso assoluto della società in cui viviamo». Misteri del postmoderno. Dove la quotidianità può diventare arte. Arte pop.

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