Un popolo che amava il lusso sfrenato e voleva spassarsela anche nell’aldilà

Chi dice Etruschi, dice mistero. Già gli storici classici litigavano sull'origine dell'antica gente, che dall'VIII sec. a.C. abitava il cuore dell'Italia, tra Arno e Tevere, tra Tirreno e Appennino, coltivando le terre grasse, facendo soldi con il commercio, le mandrie e le vigne, godendosi l'aria fina delle città costruite come diademi sulle colline più belle del mondo. Erodoto li diceva oriundi dalla Lidia, sulla costa dell'Asia. Ma Dionigi di Alicarnasso lo sbugiarda: di lidio non avevano un bel niente, né lingua, né leggi, né memorie. Erano un popolo a parte, nato proprio lì, in quella Toscana che da loro avrebbe preso nome, visto che i loro eredi e successori, i Romani, li chiamavano Tusci, storpiando il greco originario, Tyrsenòi. Quanto a loro, si firmavano Rasenna: un nome inspiegabile, che infittisce il problema. L'alone di enigma è reso, per noi, più drammatico dal fatto che gran parte di ciò che resta di etrusco riguarda la morte. Le necropoli scoperte impressionano per la vastità e l'impegno decorativo. E pare che migliaia di sepolture siano ancora lì, da esplorare, miniere di antichità gelosamente custodite da dinastie di tombaroli. Eppure, il loro lascito vive tuttora. Quando ci scambiamo gli auguri, diventiamo un po' etruschi. Venivano da Cerveteri e da Populonia i primi àugures, guru dell'oroscopo che leggevano il domani nel volo degli uccelli e nel loro modo di beccare il mangime. I Romani copiarono. I loro generali non attaccavano, se prima i sacri polli non s'ingozzavano di chicchi, o si rifiutavano di bere. Anche il nostro «trarre gli auspici» è una faccenda etrusca. Cambiava solo il metodo, perché gli harùspices ispezionavano il fegato e le interiora delle vittime, ispirandosi a modellini in bronzo delle parti anatomiche. Quando passiamo sotto a una volta (una galleria dell'autostrada, una porta civica monumentale, l'arcata di un ponte), ricordiamoci che questa vittoria sulla gravità massiccia della pietra e del mattone deriva dai tecnici etruschi, che in questo superarono l'edilizia greca, ferma allo schema trilitico, due pilastri sormontati da un architrave. Scoprirono che una curva di cunei, culminante in una chiave di volta, reggeva spinte enormi e delimitava spazi prima impensabili. I Romani non avrebbero mai elevato i loro portentosi acquedotti, e Agrippa non avrebbe consacrato la cupola emisferica del suo Pantheon, senza l'intuizione dei capomastri di Tarquinia e di Volterra, fosse farina del loro sacco o prestito di costruttori asiatici. È idea diffusa che in riva all'Arno non si scrivesse granché: non abbiamo un'Odissea o un'Eneide firmate da un etrusco. Ma è un errore di prospettiva derivante dal fatto che di scritto ci restano solo le lapidi tombali, da cui estraiamo una manciata di parole. È come se cercassimo di ricostruire la nostra letteratura disponendo solo delle lastre dei cimiteri: qualche nome proprio, termini di parentela, frasi di circostanza, note di calendario. Sufficienti per registrare un alfabeto (quello etrusco, completamente decifrato, era una variante dell'ellenico), ma certo non per descrivere stili e tendenze. Si sa che circolavano copioni, perché gli Etruschi erano uomini di teatro. Ce lo racconta lo storico Livio. I Romani erano ancora digiuni di ribalte e di regie, quando si trovarono nel bisogno di allestire dei ludi, cioè delle sceneggiate religiose per placare gli dei contrariati. Imperversava un contagio, e non c'era altro modo per scongiurare il pericolo che far rilassare gli immortali con una commedia. Le autorità scritturarono una compagnia di giro di ludiones etruschi, chiamati anche histriones, comici pronti alla buffonata e al travestimento. Segno che i geniali antenati del toscanaccio Roberto Benigni già mangiavano la polvere del palcoscenico. Dovevano essere professionisti della parola scenica: difficile pensare che non si servissero di canovacci scritti. Un altro indizio ci viene da Plauto. In una sua pièce c'è un innamorato che non vede l'ora di far saltare i chiavistelli della porta che lo separa dalla bella: così fa loro una serenata, li prega di trasformarsi in ludii barbari, «ballerini stranieri», vale a dire etruschi. Contorcendosi a ritmo, sgusceranno dai cardini, e sarà fatta. Sono flash di un'esistenza tutt'altro che lugubre. Assomigliano agli affreschi in technicolor, di festa, di mangiate e di vacanza, che i ricchi defunti etruschi si facevano tinteggiare sulle pareti interne dei sepolcri.

Era gente decisa a spassarsela anche nell'aldilà. I loro ritratti funerari sprizzano gioia di vivere ed eleganza. Gli sposi del sarcofago più celebre, oggi a Villa Giulia, a Roma, sembrano appena usciti da una gioielleria e da una boutique d'alta moda.

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