Il governo si muove in un sentiero molto stretto. Da una parte mantiene ancora in pugno il consenso di una vasta parte dell’impresa italiana. Le firme che pubblichiamo per la vicenda del Lodo Mondadori ne sono una testimonianza chiarissima. Dall’altra però non può scherzare con il fuoco. La sua base elettorale ha i nervi a fior di pelle. Le imprese e i loro uomini faticano ad arrivare alla quarta settimana (diciamo così): non vi è più spazio per alcun intoppo. Ieri una vasta pattuglia di imprenditori si è riunita a Varese per testimoniare a Tremonti e Bossi la propria condizione. Pochi mesi fa avvenne a Torino. L’umore è pessimo. Ancora, miracolosamente, non si è tradotto in aperta contestazione alla gestione di questo governo. Ma si deve dare subito un segnale di cambiamento. In Italia per essere chiari, anzi chiarissimi ci sono solo 1.650 (milleseicentocinquanta) imprese che hanno più di 500 dipendenti. Se si tengono anche conto le imprese con più di 250 dipendenti il totale sale a 3.735. Il resto sono tutte piccole e medie: le microimprese sono largamente la maggioranza dei 5,3 milioni di imprese italiane. E basta mettere il naso fuori dalla redazione di un giornale e non credere che il mondo sia quello descritto dal Sole24ore e Repubblica, per capire come lo Stato dalle piccole e medie imprese sia ancora percepito più come un nemico che come un alleato. Nonostante Berlusconi. Il paradosso è incredibile. Il premier ha creato una grande impresa. Fa parte del club dei 1.650. Eppure molti imprenditori riescono a identificarsi ancora con lui. Quando vedono la richiesta di risarcimenti monstre ai danni di Berlusconi, si identificano e il loro pensiero va alla miriade di piccoli soprusi burocratici che caratterizzano la loro vita imprenditoriale. Ma proprio per questo il governo non ha più tempo da perdere. La scorta di accondiscendenza, di intuitus personae con il cavaliere di Arcore, rischia di svanire. Non basta più la litania contro le banche. Non che queste siano incolpevoli. Tutt’altro. Ma le nostre imprese il primo schiaffo lo ricevono dallo Stato. Lo ricevono dalla burocrazia che rappresenta un ostacolo e mai un aiuto. Lo ricevono dalla sicurezza che spesso manca. Lo ricevono dalle aziende sanitarie che pensano più alle multe in fabbrica che alla salute. Lo ricevono dal fisco e dai loro meticolosissimi agenti delle Entrate. Lo ricevono dalla giustizia che fa schifo. Lo ricevono dalle strade che non ci sono. Lo ricevono dalle grandi imprese che fanno a gara con lo Stato nel pagare con lentezza esasperante. Lo ricevono dai grandi giornali (con la recente e lodevole eccezione dei begli articoli di Dario Di Vico sul Corriere della Sera) che prendono per i fondelli la piccola impresa, evocandola, ma non capendola. L’impresa, soprattutto la piccola, è come quella bella ragazza che tutti dicono di conoscere, ma che nessuno in realtà ha frequentato. Non si tratta di una novità. Nel nostro Paese non vi è mai stata una vera cultura di impresa. Per lungo tempo l’abbiamo confusa con la cultura delle partecipazioni statali. E oggi ne paghiamo il prezzo. L’impresa vera vive di una sola relazione: quella con i propri clienti. L’impresa in cui si è formata la nostra classe dirigente prospera invece solo grazie alla relazione con la politica e con l’aiuto che questa può determinare. Applicare questo metro di ragionamento ai signori di Vergiate, ai tessili di Como, ai chimici lombardi o ai calzaturieri di Barletta è una buffonata. Il problema è che la politica sta confondendo la cultura di impresa con questo suo sottoprodotto bacato. Per questo è ancora forte l’identificazione con Berlusconi che nonostante tutto ha creato il suo impero contro l’establishment. Ma la riserva di pazienza, dicevamo, è in via di esaurimento. Agitare il drappo rosso delle banche può servire per prendere tempo. Ma il toro dell’impresa italiana è smart.
Nonostante i fantasmi evocati della globalizzazione, sa che a pochi chilometri da casa nostra un signore che si chiama Sarkozy ha tagliato le imposte sulla produzione, capisce che continuare a reggere un carrozzone pubblico inefficiente rappresenta un costo, comprende bene che non sono necessari mesi e mesi per costruire un ponte sul Po (l’Anas ci ha già spiegato i motivi tecnici delle lungaggini, ma il suo presidente li vada a spiegare agli esercizi commerciali coinvolti). Troppa carne sul fuoco? Forse sì. Ma quando un imprenditore torna a casa la sera, con un mercato che non tira e una crisi ancora in corso, non si mette a fare i conticini sulle responsabilità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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