Katherine Anne Porter si definiva una Southerner. Una donna del Sud. Era nata (nel 1890) a Indian Creek, Texas, dove aveva vissuto fino all'adolescenza, educata dalla nonna severa, perché aveva perso la madre a due anni. A quindici era scappata, per sposare il primo dei suoi quattro mariti. Non era la prima volta: in una intervista alla Paris Review raccontò di essere fuggita già a sei anni, e il padre le chiese: «Perché sei così irrequieta?». Già allora lei sapeva: voleva «conoscere il mondo come il palmo della mano». Infatti ha vissuto per anni in Europa, a Parigi in particolare, in Messico e poi a Washington e a New York. Lei, donna del Sud, di deserto e sole e libertà, poteva vivere soltanto in una capitale del mondo, oppure «in una landa selvaggia». Era bellissima, ed era una perfezionista.
È morta a novant'anni, attraversando un secolo, a metà del quale è diventata una delle scrittrici americane più importanti e amate del Novecento: nel 1962 con La nave dei folli, suo unico romanzo e bestseller e poi con The Collected Stories, raccolta di racconti che le è valsa il National Book Award e il Pulitzer nel 1966; e poi tre candidature al Nobel per la letteratura. Ora questa raccolta, mai uscita in italiano, viene pubblicata da Bompiani, con il titolo Lo specchio incrinato (pagg. 496, euro 20): comprende tutte le raccolte da L'albero di Giuda in fiore (dove appare il suo primo racconto, María Concepción, storia tribale di amore e di sangue) a Bianco cavallo, bianco cavaliere, fino a L'ordine antico e La torre pendente.
Le donne dei suoi racconti sono come lo spirito di Katherine: indipendenti, capaci fin da piccole di affidarsi alle proprie risorse, orgogliose (la famiglia Porter faceva parte della aristocrazia d'America), raffinate. A loro agio in una cerchia letteraria, mentre la sbeffeggiano. Ribelli. Adorate, come Laura, la «gringita» di L'albero di Giuda in fiore, è adorata dal rivoluzionario Braggioni, che ha «la cattiveria, l'umorismo caustico e il cuore duro che ci vogliono per amare proficuamente il mondo».
L'«ingorda mole» del viscido Braggioni «è diventata il simbolo delle tante disillusioni di Laura», lei che crede che «un rivoluzionario dovrebbe essere magro, animato da una fede eroica, un ricettacolo di virtù astratte». Laura ormai sa che sono «tutte sciocchezze» e «se ne vergogna», ma questo non le impedisce di continuare a compiere certi «errori romantici».
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