Controcorrente

"Posavo per mia nonna pittrice. Ora curo mostre da record"

In 35 anni di attività ne ha organizzate 400. Da Monet a Vermeer E il pubblico si mette in coda: «Ciò che conta è trasmettere emozioni»

L'arte è il racconto della vita e lui Marco Goldin, il Signore Grandi Mostre, emotività, pop e management ha passato la sua raccontare l'arte. Organizzando esposizioni, portando in Italia capolavori, scrivendo saggi, allestendo spettacoli teatrali. Maestri celebri, opere-icona, impressioni, Impressionisti e code impressionanti. Ogni mostra, un successo. Anni fa su Facebook spuntò un gruppo denominato «Quelli che vogliono diventare Marco Goldin». Alcuni critici contestano le sue scelte mainstream, ma lui tira dritto sulla sua linea, quella che parte da Treviso, dove è nato, nel 1961, e passa dalla laurea all'Università Ca' Foscari di Venezia con tesi su Roberto Longhi scrittore e critico d'arte (110 e lode), lungo 400 esposizioni curate dal 1984 a oggi, attraversa la sua società di produzione di mostre - «Linea d'ombra» a là Conrad - e arriva dove vuole. Alla fine Goldin è l'unico che può ottenere certe opere da musei stranieri e certi finanziamenti dai privati. Di lui si fidano sindaci, direttori, collezionisti, prestatori, sponsor e pubblico. In «Gold» we trust.

Lui ha creduto nella passione e nelle arti-star. E unendole ha creato, a suo modo, un capolavoro. Portare tutti a vedere le sue mostre. Perché prima di essere le mostre su Van Gogh, su Gauguin, su Monet, le mostre curate da Goldin sono un modo di presentare se stesso attraverso i quadri di Van Gogh, di Gauguin, di Monet... Non sono mostre su. Ma mostre di. Marco Goldin. Uno che ti vien voglia di dirgli come Dino Risi a Nanni Moretti spostati, e fammi vedere la mostra.

Lei, le mostre d'arte, vorrebbero che le vedessero tutti.

«Mi piace immaginare che le opere d'arte possano non debbano essere appannaggio di un pubblico largo. E sono convinto che la cultura sia prima di tutto racconto e emozione, abbinati all'erudizione».

I suoi avversari storcono il naso davanti alle «emozioni».

«Non è una guerra. Non ci sono avversari. Qualcuno separa scientificità e popolarità. Invece per me stanno insieme. Perché una mostra non può fare 300mila visitatori? Perché - invece che allineare uno dopo l'altro dei quadri - non creare un racconto?».

Quando inizia per lei il racconto dell'arte?

«Mia nonna dipingeva. A otto anni facevo il modello nel suo atelier, in un'altana veneziana di Treviso. Sono cresciuto respirando olio e trementina».

Da allora è stata una linea retta?

«No, al liceo i miei interessi erano di tipo letterario. Scrivevo, leggevo poesia. Poi, iscritto a Lettere a Ca' Foscari misi nel piano di studi Storia dell'arte contemporanea perché all'epoca con quell'esame potevi insegnare alle superiori, non si sa mai. Lì incontrai Giuseppe Mazzariol. Un professore molto particolare: entrava in aula un quarto d'ora dopo e andava via un quarto d'ora prima, ma le sue lezioni erano indimenticabili».

Il tipo di insegnante che ti affascina raccontando.

«Ecco. Il suo corso era su Paul Klee, artista che peraltro oggi non amo particolarmente. Ma è lì che è iniziato tutto. Poi ho cominciato a scrivere per un settimanale di Treviso, città dove negli anni '80 c'erano moltissime gallerie private: ogni settimana s'inaugurava una mostra. Ho iniziato così, frequentando i vernissage e i pittori. Poi ho cambiato piano di studi».

E la vita.

«Sì, anche se in quel momento non lo sapevo. Comunque da allora l'arte è vita, passione, lavoro».

E business.

«Nel mio lavoro ha avuto qualche successo, certo. In ogni caso non sono mancate perdite, anche pensati a volte».

Prima mostra curata?

«Nel 1984, avevo 23 anni. In 35 anni di attività ho curato 400 mostre, cioè 11-12 all'anno, una al mese. Ma la media è così alta perché quando ero più giovane e lavoravo soprattutto sulla pittura italiana del '900 tenevo un ritmo di 30-35 mostre all'anno, contemporaneamente su più sedi, pubblicando anche il catalogo. Me ne rendo conto: era una follia. Da tempo ne faccio una, al massimo due all'anno».

Curriculum?

«Dal 1988 al 2002 ho diretto la Galleria comunale di Palazzo Sarcinelli a Conegliano. Dal 1988 al 2003 ho curato molte esposizioni per la Casa dei Carraresi di Treviso. Dal 1998 ho iniziato un ciclo di grandi esposizioni nel Veneto, Torino, Brescia, Bologna, in particolare sulla pittura francese dell'800. Ho insegnato allo IULM di Milano. Dal '91 al '95 ha scritto recensioni per il Giornale, con Montanelli e con Feltri».

Nel 1996 fonda «Linea d'ombra».

«È la mia società che si occupa di organizzare mostre sia di ambito nazionale che internazionale».

Quanti visitatori, da allora?

«In 23 anni 11 milioni di persone in tutto. Ho ottenuto prestiti da 1.200 fra musei, Fondazioni e collezioni private di tutti i cinque Continenti, per un totale di oltre 10mila opere portate in Italia, di 1.054 artisti diversi. Per nove anni una delle mie mostre è stata la più visitata d'Italia. E per quattro volte si è classificata tra le prime dieci più viste al mondo».

Numeri record, ma che non le sono stati perdonati.

«Invidia? Chissà, qualcuno mi ha fatto passare come quello che ha banalizzato l'arte, ma ci sono in giro tante mostre pessime eppure nessuno ha avuto critiche così feroci».

Ci soffre?

«No. Mai fatto mostre per calcolo, solo quelle che mi piacevano».

Il suo secolo d'elezione è il '900.

«In ambito italiano sì. Ma le più note restano quelle su Monet, gli Impressionisti, Van Gogh...».

Alla Gran Guardia a Verona ha appena inaugurato Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky.

«È l'esempio di quanto la passione prevalga sul business. Così come quella su Rodin lo scorso anno. Organizzare una mostra su Giacometti è antieconomico. Produrre questa mostra costa due milioni. C'è uno sponsor privato, che abbassa il rischio di impresa, pagando un quinto dei costi. Il resto dovrebbe arrivare dai biglietti di ingresso. Ci perderò...».

Perché?

«Perché tradizionalmente le mostre sulla scultura non funzionano. La gente ama guardare i quadri, non le statue».

Da cosa dipende?

«La gente ama il colore. E nelle sculture non c'è. Tutto qui. È il motivo per cui Van Gogh è stramato dal grande pubblico e Giacometti nonostante le valutazioni stellari resta poco conosciuto. Da una parte un colore urlato, dall'altra una forma che fa pensare. Tra le due cose, dal punto di vista dell'empatia dello spettatore medio, non c'è gara».

E infatti nel 2020 farà un'altra mostra su Van Gogh.

A Padova, su Van Gogh e il suo tempo. Per farle capire come si può intercettare l'interesse del pubblico prima di aprire una mostra, le racconto questo. Sulla pagina Facebook di Linea d'ombra stiamo postando alcune foto delle opere che porteremo in mostra. Bene. L'autoritratto col cappello di feltro, stranoto, è stata la prima immagine pubblicata. Poi abbiamo messo in rete un paesaggio di Arles con i mandorli in fiore. La seconda opera ha avuto il doppio dei like rispetto alla prima. Cosa significa? Che tra un ritratto, anche iconico, e un paesaggio, suscita più emozioni il paesaggio».

È per questo che gli Impressionisti fanno sempre boom?

«Certo. Perché gli Impressionisti hanno dipinto il paesaggio al suo grado massimo di bellezza».

L'impressionismo e l'età di Van Gogh del 2003 a Treviso totalizzò 600mila visitatori. Un record.

«Nel 2005 presentai poi 80 Van Gogh e 70 Gauguin tutti insieme, una cosa da Metropolitan. Risultato: 541mila biglietti. A Brescia...».

Per fare una mostra di successo cosa serve?

«Primo: studiare».

Secondo?

E relazioni internazionali. Spesso servono più dei soldi».

Terzo?

«Assolutamente la qualità delle opere: a volte si annunciano mostre con nomi altisonanti ma con quadri modesti».

E poi?

«Certo, i grandi nomi aiutano, quelli che la gente riconosce. Monet, Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Renoir, Degas, Manet, Courbet... O Picasso, o Vermeer...».

Vermeer. Goldin è «quello» che portò La ragazza con orecchino di perla in Italia.

«Grazie alle relazioni internazionali costruite negli anni. Era il 2011. Mi chiama il direttore del museo Kröller-Müller di Otterlo, con il quale ho rapporti di amicizia da vent'anni. Mi dice: Lo sai che chiudono il museo Mauritshuis all'Aia per restauri? Per due anni faranno viaggiare una selezione delle opere in giro per il mondo. Ti interessa?. Immaginati se non mi interessava! Faccio di tutto. Vado all'Aia. Mi dicono che la Ragazza andrà solo in Giappone e negli Usa. Occasione persa, mi dico. Poi però nel 2012 il direttore del Mauritshuis mi ricontatta dicendomi che hanno deciso di aggiungere una tappa, ma le richieste sono tantissime, però ricordandosi che ero stato il primo a farsi avanti mi offre la possibilità, a patto che la città fosse importante. E mi dà tre giorni di tempo. Sufficienti per accordarmi con Bologna. Dove l'ho portata».

A Palazzo Fava, nel 2014. Fu la «mostra delle mostre».

«Battuto ogni record. In media abbiamo avuto 3200 entrate al giorno, e mai un giorno sotto i 2mila, nemmeno al lunedì. Fu la mostra più visitata nel 2014 con 342mila visitatori in soli cento giorni. E sì che gli ingressi erano contingentati per via delle dimensioni di Palazzo Fava».

Qualità, grandi nomi. E Il resto?

«Il resto è comunicazione».

Campo in cui Lei è il numero uno.

«Non lo sono, davvero. Però ho capito presto che la sola comunicazione istituzionale non basta. L'arte va raccontata al pubblico, e le mostre ai giornalisti».

Lei è stato il primo a non fare le conferenze stampa seduto, ma nelle sale con la stampa al seguito.

«Se è per quello nel 2001 e 2002 per due mostre alla Casa dei Carraresi a Treviso noleggiai un aereo e portai cento giornalisti nei musei di Oslo e Edimburgo per vedere le collezioni da cui sarebbero arrivate alcune delle opere esposte. Da allora lo faccio spesso. Prima di aprire la mostra su Van Gogh a Padova, l'anno prossimo, porto tutti a Otterlo, in Olanda, al museo Kröller-Müller dove si trova una delle maggiori collezioni di Van Gogh al mondo».

Ripeteranno che sarà la solita mega mostra blockbuster. Molto d'effetto e poco scientifica.

«E io ripeterò che invece si possono tenere insieme emozione e scientificità. Tra me e un erudito l'unica differenza è il modo in cui raccontiamo la stessa materia. E comunque, prima di criticare senza avere visto, meglio vedere e poi parlare. A Padova si vedranno prestiti assolutamente sorprendenti, altro che mostra blockbuster».

Dicono che Lei si prepara in maniera maniacale sia per curare una mostra sia per scrivere un saggio.

«Per questa mostra su Giacometti ho preso centinaia di pagine di appunti. E poi vado sempre nei luoghi in cui gli artisti hanno creato, per provare a capirli meglio, per vedere le cose come le vedevano loro, per cercare un'empatia. Mentre preparavo la mostra sono stato al passo del Maloja tra la Val Bregaglia e l'Engadina: volevo camminare sui sentieri sui quali aveva passeggiato Giacometti, guardare i paesaggi che ha dipinto: il Lago di Sils, il ghiacciaio del Forno, i picchi coperti di abetaie... Solo se vedi quegli alberi snelli e slanciatissimi capisci da dove arrivano gli uomini e le donne filiformi delle sculture di Giacometti. È con questo spirito che nasce la mostra. E che la rende diversa da tutte le altre».

Oggi invece dicono che le mostre siano tutte uguali. Anzi: che l'Italia è diventata un mostrificio.

«Un po' è vero. E poi negli ultimi anni la qualità si è abbassata decisamente. Gli enti pubblici hanno sempre meno soldi, gli sponsor privati sono in fuga, portare grandi opere e grandi nomi in Italia costa troppo, si offre sempre meno, si fanno esposizioni con cinque opere belle e 50 modeste, il pubblico è meno invogliato, si riduce il numero di biglietti e l'intero circuito delle mostre va in crisi».

La sua mostra più bella?

«Forse America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo al Museo di Santa Giulia a Brescia, 2007-08. Tre anni di lavoro, venti viaggi negli Usa: per raccontare il mito della Frontiera, degli spazi immensi, della vita degli indiani e dei cowboy, esposi 250 quadri prestati da 40 musei americani, più altrettanti pezzi fra fotografie d'epoca e oggetti rituali dei nativi. Una cosa mai fatta prima da noi. A una settimana dall'apertura della mostra c'erano già 80mila prenotazioni. Abbiamo chiuso a 205mila. La Tate di Londra e Amsterdam, sullo stesso tema, erano arrivati a 100mila biglietti».

Allora lei attivò una micidiale macchina di eventi per attirare pubblico: reading, film, concerti, testimonial: Mike Bongiorno, Dan Peterson, Battiato, Salvatores, Volo...

«La comunicazione è importante. Ma non puoi comunicare il niente.

Se hai qualcosa di bello, lo devi raccontare al meglio, tutto qui».

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