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La Posta in gioco di Koizumi

Sta diventando un’abitudine fra i leader dell’Occidente, o una malattia contagiosa: le elezioni anticipate a rischio. Ne sono stati affetti quest’anno Jacques Chirac, con risultati disastrosi, e Tony Blair, che se l’è cavata per il rotto della cuffia. Il mese prossimo toccherà a Gerhard Schröder e Junichiro Koizumi. Entrambi hanno sciolto Camere in cui detenevano la maggioranza. Il primo perché sconfessato in tutta una serie di elezioni regionali, il secondo perché ha visto bloccata la più ambiziosa delle sue riforme da un voto del Senato. Non potendo sciogliere quest’ultimo perché la Costituzione giapponese lo vieta, egli si è ridotto a rimandare temporaneamente a casa il ramo del Parlamento che gli è invece fedele. Ma non si tratta proprio di una bizzarria: Koizumi va alla prova delle urne con un progetto, con una strategia che se per caso gli va bene sarà definita raffinata: approfittare della formazione delle nuove candidature per eliminare dalle liste del suo partito, il Liberaldemocratico, i «disubbidienti», i renitenti, i dissidenti. In modo da ritrovarsi più o meno con gli stessi seggi ma con una disciplinata falange di consensi; di modo che i senatori temano di fare la stessa fine quando toccherà a loro e si rimettano, in qualche modo, in riga.
Il motivo di questo scontro frontale è peculiare, ma ben definito: l’ufficio postale. Koizumi vuole privatizzare le Poste nipponiche, che sono uno dei giganti economici del Paese. Hanno 400mila dipendenti, beni patrimoniali per 3.500 miliardi di euro, 25mila uffici sparsi in tutto l’arcipelago, di modo che, è uno dei vanti dell’azienda nessun cittadino giapponese deve fare più di un chilometro per andare al più vicino sportello, anche nelle più spopolate campagne. Ma questo è niente: dalle Poste dipendono milioni e milioni di pensionati, che dagli uffici postali ricevono regolarmente a domicilio il loro assegno mensile. Alle poste si rivolgono 85 famiglie su cento per i loro conti correnti, e i libretti di risparmio, che garantiscono loro rendimenti più alti e più sicuri di quelli delle banche.
E il sistema bancario giapponese è in crisi, è anemico proprio perché gli mancano i piccoli risparmiatori. Koizumi vuole salvarle e rimetterle sul piano di concorrenza con gli istituti stranieri. Per far questo ritiene necessario decapitare le Poste. Anzi, squartarle, dividendole in quattro società separate con funzioni differenti, tutte da mettere in mano dei privati. Che si occuperanno del profitto, diminuiranno i benefici e dunque si apriranno alla concorrenza. Bastano questi pochi cenni per capire che una riforma del genere non può essere popolare. Di qui la rivolta dei ranghi del Partito liberaldemocratico, aperta in Senato dove non si corrono rischi immediati, sotterranea alla Camera.
Koizumi ha deciso di correre il rischio per prevenire un’estensione dell’ammutinamento ad altre riforme che egli ritiene necessarie per tirare fuori il Giappone (seconda potenza economica del pianeta) da una stagnazione economica che dura ormai da almeno dieci anni e che lo ha costretto a mettere nel cassetto le sue ambizioni (che alla fine degli anni Ottanta parevano destinate a essere realizzate) di contendere il primato mondiale agli Stati Uniti. La cura che egli propone è meno popolare della sua personalità. Ed egli dunque condurrà una campagna elettorale di scontro frontale. E sa che rischia di perdere.
Le conseguenze andrebbero al di là del libretto postale.

Il Partito democratico d’opposizione, il Minshuto, si propone anche un allentamento dei legami con l’America, un accostamento alla Cina e all’Ue e, per cominciare, il ritiro dei soldati giapponesi dall’Irak.

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