Un fenomeno quando corre contro il cronometro. Un ercolino senza pile, come dire senza attributi, quando deve battere gli uomini. Ancora una volta Asafa Powell ha dimostrato che essere luomo più veloce del mondo, non significa essere il più forte del mondo. Cè forza e forza: chi ce lha solo in piedi e gambe e chi anche nella testa. Lo sport non fa sconti, magari ripetitivo nei concetti e nelle dimostrazioni, dice sempre che il cervello domina: se giochi col pallone o se voli i cento metri, se corri la maratona o se tiri pugni sopra un ring. Joe Frazier è sempre stato nellombra di Alì, un eterno secondo anche se una volta lo ha battuto ed ha combattuto Clay fino alle soglie del Creatore. Raymond Poulidor ha sempre sofferto la leadership agonistica di Jacques Anquetil, bisbetico avversario di bicicletta. Pelè è rimasto il campione di un secolo, anche se Maradona è stato più bravo con i piedi. Ma più guitto nellusare la testa.
Powell poteva essere luomo jet di unepoca, fino ad oggi è sceso 31 volte sotto il muro dei dieci secondi nei 100 metri, per tre volte in un anno ha corso in 9"77, tempo da record per gambe da siluro, poteva essere un campione marziano se avesse acchiappato quel successo che ti mette in testa una corona da re. Non ce lha fatta a Parigi 2003, ma quella era la sua alba da campione. Non cè riuscito nemmeno ai Giochi di Atene. Non ha partecipato ai mondiali di Helsinki per un infortunio. E stavolta ha fatto fiasco, dimostrando quanto gli sta a pennello letichetta del perdente di successo. Tanto che i mondiali di Osaka saranno ricordati per la sconfitta di Powell, prima ancora che per il successo di Tyson Gay.
Ancora una volta lo sport ha dimostrato quanto conti il carattere. Veronica Campbell, giamaicana come Powell, magari soggetta come lui ai tipici alti e bassi dellumore caraibico, perse i 100 metri a Helsinki per soli due centesimi: davanti a lei Lauryn Williams, la velocista pocket a cui ieri ha strappato il titolo per un graffio e una voglia disperata in più.
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