
La «mission» è tutt'altro che «impossible». Non si tratta di salvare il soldato Avati ma di dare slancio al cinema italiano e nuovo ossigeno alle sale che languono in una progressiva desertificazione. «Solo a Roma sono scese da 200 a 40», spiega il decano dei registi italiani che - da «Garda Cinema» dove è stato ospite d'onore dopo aver terminato la prima fase delle riprese del suo nuovo film - lancia critiche, proposte e precise strategie.
Allora, è scoppiata la pace tra il governo e la settima arte di casa nostra.
«Diciamo che ci hanno messo una pezza. Momentanea sutura. Un timido ramoscello d'ulivo. La verità è che si vive di scontri continui perché alla parassitarietà non conviene che tutto funzioni nella concordia. A ognuno fa comodo dire il contrario dell'avversario».
Si spieghi meglio.
«Dalla fine della guerra la sinistra si è appropriata della cultura e l'ha monopolizzata, facendo sì che ogni versante di essa fosse suo territorio specifico, a parte singole eccezioni di personaggi straordinari di diversa ispirazione. La maggior parte però ha trovato molto comodo nel dichiararsi di sinistra e rivendicare la propria appartenenza a quella coalizione».
E il centrodestra?
«La destra non dispone di quegli specialisti perché non li ha. Non ha mai avuto voce in capitolo. E si rifiuta di aiutare una cultura completamente in mano ai suoi rivali. In molti casi ha ragione a sottolinearne la mediocrità. Tanti, troppi, non hanno alcun valore artistico o professionale. Far parte di uno schieramento non significa essere abili o capaci».
Quindi, come se ne esce.
«Occorre buon senso. Ho preparato una proposta in stile francese. Un'agenzia di controllo formata da tecnici, non da politici. Oddio, io avevo chiesto un ministero ma la Meloni mi ha risposto che non ce lo possiamo permettere. Costa troppo».
Un organismo diverso sarebbe invece possibile?
«Eccome. Basterebbe cambiare il nome da Direzione cinema in Agenzia del cinema, della televisione e della cultura digitale. Personale autonomo. Imparziale. I tecnici non guardano le tessere e farebbero da setaccio per depurare questa melma. La politica spesso ha protetto persone che non valevano niente perché organiche».
È arrabbiato con la maggioranza o l'opposizione?
«Dico solo che i politici non sono competenti. E nemmeno appassionati. La cultura non è di una parte sola. Scusi, posso farle io una domanda?».
Spero di saper rispondere.
«Non sono un narciso specializzato nel culto del sé, tuttavia ho attraversato il cinema italiano da quando c'erano Blasetti, Comencini, Lattuada, Antonioni, Fellini a oggi. Ho fatto una proposta agglomerante ma sono stato emarginato. Sono lucido con l'esperienza necessaria. Perché non mi ha chiamato nessuno? Perché non mi hanno chiesto suggerimenti? Senza cultura si può solo morire».
Allora si candida a dirigere l'Agenzia. Quale sarebbe la sua prima mossa?
«Aprirei le finestre tra l'uscita dei film in sala e l'approdo sul piccolo schermo. Da tre mesi passerei a dieci. Molti cinema riaprirebbero, altri non chiuderebbero più e soprattutto sarebbe un'iniezione dal punto di vista imprenditoriale con molti posti di lavoro in più».
E perché non lo fanno?
«Per favorire le piattaforme americane. Minaccerebbero di andarsene, come hanno fatto in Francia, ma il governo, lì, ha tenuto duro. Sa com'è finita. Non se n'è andato nessuno».
E dopo aver spalancato le finestre come procediamo?
«Creerei una corsia preferenziale per il cinema a basso costo. La nostra tradizione culturale si fonda su questa formula. Dalle origini al Dopoguerra, i maggiori capolavori italiani avevano spese contenute. Rossellini fece Roma città aperta con la pellicola dei fotografi di San Pietro».
Passo numero tre.
«Da membro del cda del Centro sperimentale di cinematografia istituirei una cattedra per insegnare a girare un film a basso costo senza far vedere che lo è. Solo registi di grande esperienza possono farlo ma quest'anno Vermiglio è arrivato all'Oscar con un budget minimo. Non serve chiedere allo Stato 50-60 milioni per un cinema di pregio. Titoli che non costino più di 3 milioni e mezzo e opere prime sotto il milione e mezzo meritano agevolazioni. Così si potrebbe lavorare di più grazie a una commissione tecnica non agli amici degli amici che avallano tutto senza nemmeno leggere la sceneggiatura».
Un po' di sano nazionalismo.
«Il nostro cinema deve avere prerogative italiane. Abbiamo avuto successo quando siamo stati identitari. È il nostro punto di forza. Se facciamo gli europei o gli occidentali diventiamo neutri.
Dobbiamo mostrare l'ambizione di essere italiani, non autodenigratori o esterofili. Noi non ci vogliamo bene per niente, siamo troppo genuflessi. Eppoi. Premiare la competenza non significa premiare l'appartenenza come ha fatto la sinistra finora».