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Il premier: "Dimezziamo i politici"

Berlusconi: "Nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni in troppi vivono con i soldi pubblici". Poi difende la manovra e si sfoga: "Cambiare è difficile, vien voglia di tornare a fare l’imprenditore o andare in pensione"

Il premier: "Dimezziamo i politici"

Roma - Si sente a casa, Silvio Berlusconi, in mezzo alla platea di Confcommercio. Piccoli imprenditori, artigiani, commercianti lo percepiscono e applaudono quando, invece di leggere la sua relazione, il premier parla a braccio. Per un’ora ascolta, spesso annuendo, l’intervento del presidente di Confcommercio Carlo Sangalli. Poi tocca a lui. C’è amarezza nell’esordio del Cavaliere, ieri in versione anticasta: «Quando un imprenditore come me pensa alle cose da fare, qualche volta si scoraggia. Perché per arrivare a un risultato concreto bisogna passare le forche caudine di tante difficoltà che a volte uno pensa “chi me lo fa fare? Torno a fare quello che facevo prima o me ne vado in pensione”». Uno sfogo bell’e buono perché per Berlusconi Sangalli «ha fatto il quadro di tutto ciò che si dovrebbe fare in una situazione difficile come quella ereditata e aggravata dalla crisi. Ma tra il dire e il fare in Italia c’è non solo il mare ma l’oceano».

Pensa alle intercettazioni e alla difficoltà di approvare un provvedimento sacrosanto ma non solo. Pensa alla manovra, alla necessità di tirare la cinghia e difende il lavoro del suo governo che «ha fatto bene sui conti pubblici, sulla linea del rigore assoluto, e tutti ci riconoscono che abbiamo ben operato». Pensa ai sacrifici «che però non toccano le imprese ma soltanto le amministrazioni pubbliche che devono limitare le spese improduttive, gli sprechi, i privilegi assurdi». Il Berlusconi uomo del fare vorrebbe colpire a morte la «casta», vero e proprio mammuth che appesantisce il Paese. Il Berlusconi antipolitico, se potesse, somministrerebbe una vigorosa cura dimagrante per lo Stato: «Abbiamo tanta gente che vive di politica, non solo a Roma ma anche nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni. Occorrerebbe dimezzarla e sarebbero ancora numeri abbondanti». La platea applaude. Si pensa ai quasi mille parlamentari, all’esercito di consiglieri e assessori regionali provinciali e comunali. Si pensa ai sindaci, ai presidenti e ai rappresentanti di enti pubblici, consorzi, comunità montane che ingolfano i processi decisionali e costano una montagna di denaro pubblico.
E a proposito di denaro, Berlusconi difende la manovra tremontiana soprattutto per quanta riguarda il capitolo di spesa per i dipendenti della pubblica amministrazione: «A loro possiamo chiedere di stare fermi un giro», spiega motivando il blocco del contratto per gli statali e ricorda che, rispetto ai lavoratori del settore privato, questi godono di alcuni benefici. «L’aumento degli stipendi è stato di quasi il doppio e hanno dei vantaggi che i privati non hanno». Infatti loro «non corrono il rischio del licenziamento e della cassa integrazione». Vorrebbe gestire l’Italia come se fosse una grande azienda, Berlusconi, ma purtroppo è impresa ardua. «Bisogna riformare le istituzioni del Paese e la Costituzione per renderla adatta alle esigenze di un Paese moderno, che vive in una globalizzazione totale e deve avere gli strumenti per intervenire con tempestività ed efficacia». Ma «il capo del governo, in Italia, non ha poteri». Ragioni storiche e strutturali legano le mani al presidente del Consiglio: «L’architettura istituzionale che i padri costituenti hanno voluto risentiva del timore che potesse tornare una dittatura e, quindi, hanno spartito il potere tra diversi organi: hanno tolto ogni potere al Consiglio dei ministri e al presidente del consiglio, che ha come unico potere quello di fare l’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, che io ho pure delegato al dottor Gianni Letta». Il quale, in prima fila, si prende applausi scroscianti quando Berlusconi quasi li pretende dalla sala perché «se non ci fosse Letta...

È una persona straordinaria e di una onestà intellettuale veramente inarrivabile».

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