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Il presidente dell’Anp ora diventa ostaggio dei «falchi» di Hamas

C’è un fagottino giallo in testa a quel corteo di lacrime e dolore, davanti a quello sciamare di rabbia e disperazione. Rima Assamna non aveva neppure un anno, la granata d’obice caduta nella sua stanza era più grande di lei. Il padre l’alza sopra la folla, lei galleggia su quel quel boato di collera, guida la marcia al cimitero. C’è il suo corpicino davanti a quelli di altri cinque bimbi, poi quelli delle sei donne - madre e sorelle - della famiglia Al-Athamna, e più dietro gli uomini del clan. Diciannove cadaveri avvolti nelle bandiere gialle di Fatah. Così vuole la tradizione di questa famiglia di medici e avvocati conosciuta, un tempo, come una delle più fedeli ad Arafat. Ma dietro, tra le file della processione, Hamas e Fatah si confondono. Stessa rabbia, stessi slogan, stessa voglia di vendetta. Proprio «vendetta» è la parola più usata. Gridata a squarciagola nei megafoni, ripetuta fin davanti alle diciannove fosse.
Ventiquattr’ore dopo la strage di Beit Hanun, Hamas e Fatah sono all’improvviso la stessa cosa. Quelle granate da 155 millimetri fuori bersaglio hanno cancellato cinque mesi di reciproci agguati, assassini e rappresaglie. Dei morti di Hamas uccisi da Fatah e viceversa nessuno ricorda più nulla. Bandiere gialle e verdi sventolano assieme mescolando slogan e furore. «I killer israeliani non sconfiggeranno i bimbi palestinesi», ulula al megafono Abdul Hakim Awad, un dirigente di Fatah mandato ad aizzare la fiumana di diecimila e passa palestinesi. «Occhio per occhio anima per anima, non vi sarà sicurezza ad Ashkelon, né a Tel Aviv, né ad Haifa fino a quando Beit Hanun non sarà sicura», risponde la folla.
Hamas osserva compiaciuto e fiuta l’opportunità tanto attesa. Dopo mesi di vacche magre, il vento è cambiato. Gli errori inanellati dal governo Olmert e consacrati da quell’inutile strage stanno regalando l’opportunità tanto attesa. La rabbia per quei 19 morti ha cancellato il risentimento per gli stipendi non pagati e il ricordo delle ristrettezze quotidiane. Ora Hamas è di nuovo più forte di Mahmoud Abbas. Ora il presidente, già accusato di voler compiacere israeliani e americani, non può più dettare condizioni. E Ismail Haniyeh cambia registro in 24 ore. Le trattative per un governo di unità nazionale cancellate poche ore dopo la strage diventano di nuovo attuali. Anzi, come spiega Haniyeh ai parlamentari arabo-israeliani Ahmed Tibi e Ibrahim Tzartzur scesi a Gaza per incontrarlo, vanno nel migliore dei modi. E chi può smentirlo. Abbas, ostaggio della rabbia del suo popolo, non è più in grado di imporgli nessuna delle condizioni annunciate per la formazione del nuovo esecutivo.

Non può pretendere la consegna del caporale israeliano Gilad Shalit rapito da Hamas a giugno, non può imporre la scelta del successore di Haniyeh, non può pretendere il riconoscimento d’Israele e tantomeno accettare le lusinghiere offerte di Ehud Olmert. Può solo dire di sì ad Haniyeh o rinviare ancora lasciando Hamas e il suo governo al proprio posto.

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