Mitt Romney getta la spugna e ora non ci sono più dubbi: John McCain è il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Certo, l’ex reverendo Mike Huckabee resta in pista, così come il libertario Ron Paul; ma non hanno possibilità di strappare la nomination. Huckabee a questo punto mira a ottenere l’incarico di vice. E, se così fosse, sarebbe un’ottima scelta: i due si stimano, hanno già stretto patti di desistenza contro Romney e, soprattutto, sono complementari: McCain è moderato, stimato dal Pentagono e dagli elettori indipendenti, Huckabee rappresenta la destra religiosa e conservatrice, che non ha mai avuto in simpatia l’eroe del Vietnam dai capelli bianchi e il sorriso innocente. Romney era il candidato dell’establishment e della famiglia Bush. Ha investito nella campagna elettorale buona parte del suo colossale patrimonio personale, ma non aveva il profilo giusto per sfondare nell’America di oggi, che chiede cambiamento, che invoca una guida sicura, che chiede di essere ispirata. L’ex governatore del Massachusetts è un eccellente manager, ma un pessimo comunicatore: non è empatico, ha l’aria da furbetto e poi è mormone: un dettaglio che per molti americani è risultato determinante.
Romney sperava di risorgere nel supermartedì e invece ha vinto solo in nove Stati di piccole e medie dimensioni. I più grandi sono andati a McCain, mentre Huckabee, che sembrava spacciato, ha conquistato un solidissimo terzo posto. Romney ci ha dormito su due notti ma non è riuscito a superare la delusione e ieri ha annunciato la sospensione della campagna, che equivale a un ritiro, con una postilla importante: conserva i delegati conquistati finora e dunque sarà presente alla convention di fine estate. Nel suo discorso d’addio, pronunciato a Washington di fronte a qualche centinaio di sostenitori, non ha appoggiato nessuno dei candidati rimasti; ciò significa che non ha rinunciato alla speranza di diventare il numero due di McCain.
La fine della corsa per la nomination conferisce ai repubblicani un vantaggio strategico: permette di preparare con cura la campagna per il voto presidenziale del 4 novembre, di risparmiare soldi e di evitare una guerra di logoramento. Tra i democratici sta avvenendo esattamente l’opposto. La guerra tra Hillary Clinton e Barack Obama è destinata a continuare. Infuria quella per i voti anche quella per i fondi. Con un primo verdetto sorprendente: l’ex first lady è in bolletta. In poco più di un mese ha bruciato i cento milioni di dollari di cui disponeva alla fine del 2007; per finanziare le ultime battute della campagna del supermartedì ha dovuto sborsare di tasca propria ben cinque milioni di dollari.
E ieri, con molto imbarazzo, il direttore della Comunicazione Howard Wolfson ha dovuto confermare lo scoop della rivista Time, secondo cui diversi componenti dello staff di Hillary hanno deciso di lavorare gratis per il mese di febbraio; tra loro anche la manager della campagna elettorale, Patti Solis Doyle. Nel pomeriggio Hillary ha cercato di rimediare, diffondendo un’e-mail in cui assicura che in appena 24 ore dal supermartedì ha ricevuto quattro milioni di dollari, versati da 35mila sostenitori. E così potrà pagare anche il suo staff. Obama, però, fa molto meglio: nello stesso arco di tempo ha raccolto 7,2 milioni di dollari.
Un record, a conferma di una tendenza travolgente. Mentre fino a metà gennaio i due candidati erano più o meno alla pari nella raccolta di finanziamenti, nelle ultime settimane il senatore nero ha staccato nettamente l’ex first lady.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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