Processi lumaca, ma i giudici non vogliono lavorare di più

Milioni di cause pendenti, in 4 anni i risarcimenti cresciuti dell’800 %

da Roma

Su un punto sembrano tutti d’accordo: il problema centrale della giustizia è quello dei processi-lumaca. Otto anni in media nel civile, cinque nel penale. E vuol dire che, in genere, ai dieci anni si arriva facilmente. Il numero di cause pendenti è in continua crescita: per il civile negli ultimi 20 anni si è triplicato, superando i 3 milioni di procedimenti, mentre nel penale è raddoppiato. E tutto questo si traduce troppo spesso per il cittadino in una «giustizia negata».
Nei suoi primi interventi sia davanti al Csm sia al congresso dell’Anm il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha detto che il primo obiettivo del governo è proprio quello di diminuire i tempi di durata del processo. Gli ha fatto eco il ministro ombra del Pd, Lanfranco Tenaglia, dichiarando la disponibilità dell’opposizione per provvedimenti urgenti, anche perché il nostro Paese rischia una procedura d’infrazione della Commissione europea. E gli stessi magistrati, per bocca del presidente dell’Anm Luca Palamara, hanno chiesto adeguati interventi legislativi e organizzativi per attuare il principio della «ragionevole durata del processo».
Grida d’allarme dovute anche al fatto che tanta lentezza costa sempre di più allo Stato, perché fioccano le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia per il risarcimento danni, in base alla legge Pinto del 2001. All’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, ha detto che negli ultimi 5 anni il contenzioso ci è costato 41,5 milioni di euro, di cui 17,9 solo nel 2006. L’incremento è esponenziale: nel 2002 il costo era di 1,8 milioni, con un aumento in solo 4 anni dell’800 per cento. Secondo le stime, il rischio potenziale per questo tipo di sanzione è di 500 milioni di euro l’anno. Non basta: per la Banca Mondiale uno dei principali freni allo sviluppo produttivo dell’Italia è dato appunto dalla lentezza dei processi, che genera incertezza negli scambi e scoraggia gli investitori. Per questo, il nostro Paese è al 155° posto in classifica per efficienza su 178. Insomma, i tempi della giustizia hanno pesanti ricadute sulla crescita dell’Italia e il benessere dei cittadini.
Eppure, la nostra spesa per la giustizia è abbastanza in linea con gli altri Paesi dell’Unione europea: 46 euro per abitante, contro i 44 della Svezia, i 53 della Germania e i 41 dell’Olanda: solo che là i processi civili durano meno della metà che da noi. E i giudici italiani sono 1,39 ogni 10mila abitanti, contro la media comunitaria dello 0,91.
Per consentire una riduzione dei tempi dei processi molti sono i rimedi legislativi e organizzativi proposti, a partire da un filtro per i ricorsi in Cassazione (l’85 per cento è ritenuto inammissibile), l’unica Corte suprema in Europa a non averlo. Ma perfino Palamara ammette: «Non nascondiamo che i magistrati possono fare molto di più e vogliamo ribadire che il modello cui tendere è quello di un magistrato preparato e qualificato, ma anche laborioso e in grado di legittimarsi innanzitutto con il suo lavoro e la sua professionalità».
Lo dimostra il caso, purtroppo isolato, del presidente del tribunale di Torino. Mario Barbuto, puntando sul merito e sull’efficienza, ha fatto conquistare al suo ufficio il primato delle cause-lampo: è l’unico in Italia in cui il 93 per cento di quelle civili ha meno di 3 anni e il 66 per cento addirittura meno di 12 mesi. Con 20 regole per i suoi 80 magistrati ha dimezzato gli arretrati e ora vuol cimentarsi anche nel penale. Una giuria internazionale gli ha attribuito una menzione speciale nel 2006, mentre arrivava l’ennesima bocciatura europea all’Italia per i processi-lumaca.


Il caso-Barbuto da una parte e il caso-Pinatto dall’altra. Perché il secondo è il giudice passato da Gela a Milano, che ha impiegato 8 anni a depositare una sentenza (malgrado sanzioni e ammonimenti del Csm), provocando la scarcerazione di pericolosi mafiosi.

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