La Cia non si arrende alla giustizia italiana. Il giudice Oscar Magi, che il 4 novembre  pronunciò la sentenza sul rapimento dell'estremista islamico Abu Omar condannando un folto  gruppo di dirigenti e agenti dell'intelligence americana, è ancora intento a scrivere le  motivazioni della decisione, che non saranno depositate prima di gennaio. Ma - di qua e di là  dall'Atlantico - sono già in corso i preparativi per la seconda fase della battaglia. Per la  prima volta nella sua storia, il più famoso servizio segreto del mondo si vede condannato dalla  magistratura di un paese alleato. E il «disappunto» reso noto a botta calda da Washington dopo  la lettura della sentenza è solo l'avvisaglia di uno scontro diplomatico, politico e giudiziario  destinato a durare ancora a lungo.
Si tratta, anche per la Cia, di una partita difficile e complessa, proprio perché lo scenario è  assolutamente inedito. La sentenza di Magi ha risparmiato il più alto in grado degli americani  sottoprocesso, l'ex resident della Cia a Roma Jeff Castelli, ma ha condannato a cinque anni di  carcere un lungo elenco di agenti operativi. E ha inflitto ben otto anni a Robert Seldon Lady  («Bob» per i suoi numerosi amici), capocentro Cia a Milano. Si potrebbe obiettare che si tratta  di condanne soltanto virtuali, perché tutti i condannati sono riparati da tempo negli Stati  Uniti e non rischiano certo l'estradizione. Ma se la sentenza diventasse definitiva i problemi  sorgerebbero comunque, gli 007 condannati non potrebbero più lasciare il suolo americano perché  in qualunque altro paese legato all'Italia da un trattato di estradizione - per non parlare del  Vecchio Continente, dove vige il mandato di cattura europeo - rischierebbero di trovarsi  ammanettati e consegnati alla polizia italiana. Certo, non dovrebbe essere difficile per un  agente Cia viaggiare con una identità di copertura efficiente. Ma la «serenità» degli agenti in  missione ne risulterebbe, come si può intuire, ampiamente compromessa.
Poi ci sono altri aspetti imbarazzanti per i capi di Langley. Il più banale: tra i condannati  c'è una agente, Sabrina de Sousa, che ormai appare totalmente fuori controllo, ha accusato la  agenzia di averla scaricata e minaccia fuoco e fiamme. Non è una figura di primo piano  nell'organigramma Cia, non dovrebbe essere a conoscenza (se la regola del need to know, conosci  solo quel che serve, funziona ancora) di segreti particolarmente delicati, ma se iniziasse a  chiacchierare troppo in giro qualche danno potrebbe farlo. E poi ci sono di mezzo i soldi, il  milione di dollari che i condannati devono versare immediatamente ad Osama Mustafa Hassan Nasr,  il nome originario di Abu Omar, come risarcimento per il sequestro a Milano, il trasferimento  coatto prima ad Aviano e poi a Ramstein e infine la consegna al governo egiziano. Che, come ha  ricordato pochi giorni fa l'imam estremista in una intervista al Pais, si risolse in lunghi  giorni di torture, «scariche elettriche nei testicoli, pugni e calci a mani nude o con un cavo».
Chi deve pagare il risarcimento? Nè la Cia nè il governo americano erano sul banco degli  imputati, quindi un pignoramento diretto a loro carico, presso le sedi consolari in Italia, non  è possibile (a meno che gli avvocati di Abu Omar non avviino una causa civile chiamando  l'Agenzia in causa per le colpe dei suoi agenti). E così il cerino rischia di restare in mano  all'unico imputato cui nel corso delle indagini sono stati sequestrati dei beni: e cioè Bob  Lady, che in Italia aveva comprato una vasta tenuta dove progettava di ritirarsi dopo il  pensionamento. Ora la tenuta rischia di essere messa all'asta. Come reagirà Lady, che nel  frattempo ha lasciato la Cia e non ha nascosto - nell'intervista al Giornale di qualche mese fa  - le sue critiche all'operato dei suoi capi per la sciatteria con cui venne realizzato il  sequestro?
Ma c'è dell'altro, nel costringere i vertici della Cia a ricorrere in appello - finanziando le  difese degli agenti sotto accusa - contro la sentenza del giudice Magi. Il problema vero è che,  per come è strutturata la sentenza, rischia di essere un problema non da poco nei rapporti tra  l'Agenzia e il governo di Washington. Perchè se da un lato è vero che il presidente Barack Obama  non ha modificato la decisione del suo predecessore George W. Bush sulla pratica delle  rendition, i sequestri di presunti terroristi che la Cia è autorizzata a realizzare ovunque nel  mondo, questa pratica comunque ha dei binari, delle regole alle quali la Cia si deve attenere. E  la principale tra queste è che la rendition, se avviene sul territorio di un paese alleato, non  può avvenire all'insaputa del governo locale e dei suoi servizi segreti. Paradossalmente, se la  sentenza di Magi avesse condannato anche gli uomini del nostro Sismi sotto processo - a partire  dal capo Niccolò Pollari e dal suo braccio destro Marco Mancini - per gli americani tutto  sarebbe stato meno grave: perchè si sarebbe sancito che l'operazione Abu Omar, anche se in  contrasto con le leggi italiane, era avvenuta secondo le direttive della Casa Bianca.
Invece gli agenti segreti italiani sono stati tutti prosciolti perchè il fatto è coperto da  segreto di Stato. Anche se è prevedibile che le motivazioni della sentenza conterranno  valutazioni severe sul ruolo svolto dagli 007 italiani nella vicenda, la sostanza è che il Sismi  (che oggi si chiama Aise) è uscito indenne dalla vicenda Abu Omar. Gli unici responsabili  acclarati, dice il giudizio di primo grado, sono gli uomini dell'intelligence a stelle e  strisce. Ed è questa conclusione che risulta indigesta a Langley e a Washington.
Così i consiglieri legali della Cia affilano le armi in vista dell'appello.
Processo Abu Omar, la Cia prepara la controffensiva
Dopo la condanna dei suoi 007 per il rapimento dell'imam a Milano, l'Agenzia punta tutto sull'appello. Perché la sentenza sulla «rendition» potrebbe avere effetti pesanti anche in America
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