Processo Gea «I reati di Moggi figli del calcio senza regole»

Nell’ordinamento sportivo non c’è alcuna limitazione per l’applicazione del diritto penale. I reati da chiunque commessi restano tali anche nel mondo del calcio. È quanto si afferma nella motivazione della sentenza del processo che vedeva imputati di associazione per delinquere, violenza privata ed altro Luciano Moggi, suo figlio Alessandro e altri componenti della Gea. La sentenza ha condannato Luciano Moggi ad un anno e quattro mesi e il figlio ad un anno e due mesi per il solo reato di violenza privata. Piena assoluzione invece per gli altri, tra cui il figlio del ct Lippi, Davide.
In una motivazione di 318 pagine le ragioni in base alle quali sono state pronunciate le decisioni escludendo la sussistenza, fatto importantissimo, del reato di associazione per delinquere: «Appare evidente come la tipologia delle intimidazioni poste in essere dei due Moggi nelle vicende che hanno determinato il processo non possa essere ascritta tra quelle tipiche della criminalità organizzata ma solo quella della violenza privata consumata o tentata». Ma nell’illustrare le ragioni che hanno consentito alla Gea di assumere un ruolo di preminenza, il Tribunale «ha constatato un fenomeno di generalizzata deregulation, anche a cagione della scarsa attenzione e del limitato intervento degli organi direttivi e di controllo della Figc».
Nel frattempo, nell’ambito del processo Calciopoli, l’arbitro Gianluca Paparesta, intervistato da La7, ha spiegato: «Non sono mai stato chiuso in uno spogliatoio da Moggi.

Lui e Giraudo entrarono agitati e si lamentarono del mio operato: nessuno però mi ha chiuso dentro lo spogliatoio. Si sono solo lamentati in maniera decisa perchè non avevo concesso loro un rigore e avevo annullato il gol del pareggio proprio un attimo prima del finale».

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