Processo a Rudy, va in scena l’ultimo reality della giustizia

META Inchieste con indici d’ascolto da Sanremo preparano la scalata ad un seggio

Si è aperto ieri di fronte alla Corte d’appello di Perugia il processo a Rudy Guede per l’uccisione di Meredith Kercher, un caso che come molti altri in questi ultimi anni ha sollevato curiosità ai limiti del voyeurismo, siparietti mediatici, fiumi d’inchiostro giornalistico ma anche riflessioni sul funzionamento della «macchina giustizia».
I trent’anni di pena elargiti con rito abbreviato hanno privilegiato indizi sulla colpevolezza basati più su una valutazione dell’inaffidabilità del personaggio che sui dati reali dell’incidente probatorio. Su entrambi la difesa appare molto agguerrita. Sia perché l’indagine medico-legale pareva escludere la violenza sessuale (anche con il mitico Dna completo o incompleto). Sia perché il racconto di Rudy è l’unico in grado di dare una risposta coerente, organica e confortata dei fatti oggettivi raccolti sulla scena del delitto.
La fuga che lo ha condannato è ampiamente spiegabile dalla struttura psicologica di un ragazzo mite, timido e fragile lontanissimo dalla descrizione dell’incallito spacciatore che racconti giornalistici troppo superficiali avevano costruito. D’altra parte Rudy è stato condannato per concorso in omicidio con Amanda e Raffaele. Ma se il processo dei due non dovesse concludersi con una condanna, che ne sarebbe del quasi ergastolo di Rudy? Insomma, «simul stabunt simul cadunt». Ma in questa, come in altre vicende affratellate dal febbrile furore mediatico, emerge una considerazione in più: mai come da quando le indagini e i processi sono stati affidati più che all’intuito degli Sherlock Holmes, dei tenenti Colombo, dei Maigret o dei Poirot, a sofisticati laboratori di biofisica intercalati da talk show e da procuratori mediatici si è avuta la sensazione della quasi totale irrisolvibilità di ogni caso. Da Garlasco a Cogne, passando attraverso tutti gli altri psicodrammi mediatico-giudiziari.
Plastici, biciclette, colonnelli e giudici superstar insieme ad avvocati politico-giornalistici sembrano aver diffuso più una dubbiosa insicurezza che rassicuranti pacatezze sul funzionamento dei tribunali. È come se in una specie di sabba infernale dell’apparire, si avesse la sensazione che un’inchiesta con indici d’ascolto come Sanremo, possa preparare la scalata ad un seggio nazionale o europeo meglio di qualsiasi campagna elettorale.
La confusione aumenta in chi legge ingenuamente i fatti, ancor più quando si può passare facilmente dal lato delle guardie a quello dei ladri. Colonnelli dei carabinieri prima santificati vengono improvvisamente iscritti sullo stesso registro degli indagati su cui già figuravano penalisti accusatori. In ogni rivoluzione, dal 1789 in poi, si troverà sempre un puro più puro come il Couton che dalla sua sedia a rotelle decapitava l’impuro rivoluzionario Danton.
Un po’ fiacco appare dopo l’overdose estiva il filone velinistico-erotico privilegiato da un famoso pm dal cognome anglo-napoletano. Modelli di metodologia ed etica giudiziaria che hanno avuto degli antesignani illustri in quel Cordova che a Palmi Calabro mentre processava tutte le massonerie universali ricevette in dono dal presidente Cossiga un cavallo a dondolo e una scatola gioco di Spectre.
Capita ogni tanto che in questo tragico carnevale resti sul campo anche qualche vera vittima, parlo del povero ufficiale dei carabinieri che dopo aver servito fedelmente lo Stato per 40 anni, arrestando fra l’altro a mani nude agli ordini del generale Dalla Chiesa Curcio e Franceschini, si è visto rifilare dal Tribunale di Milano tre anni per favoreggiamento per avere obbedito al suo diretto superiore del Sismi per avere concesso l’uso del proprio telefonino durante la vicenda Abu Omar. Viene da chiedersi quale immagine della sicurezza nazionale possa essere percepita nelle cancellerie di Washington, Londra, Parigi, Berlino, Mosca o Pechino di fronte a un uso che definire disinvolto delle funzioni dello Stato appare poco.
Diceva il grande maestro del diritto, il cattolico liberale Mortati, che il processo penale è già in sé una pena. Dovrebbe essere lo strumento con cui si sceglie questo dolore piuttosto che la legge del taglione. Ma occorrerebbe che la prudente riservatezza e l’equilibrio, consustanziale ai veri uomini di legge di ogni tempo, tornassero a prevalere. Sono piene le sale cinematografiche in cui uno splendido Michael Douglas, nel film malamente tradotto in italiano «Alibi», in inglese «Oltre ogni ragionevole dubbio», racconta di un procuratore che falsifica e amplifica le prove per propri indiscutibili personali vantaggi.

Come in tutte le belle pellicole americane, viene battuto e smascherato da un piccolo eroe «Parsifal innocente». Speriamo che anche nel nostro film accada lo stesso. O che perlomeno entrambi vengano invitati a un reality o a una prestigiosa candidatura politica.

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