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Processo Telecom, i pm vanno in tilt e il giudice li bacchetta

Milano«Urca che autogol», dice un avvocato uscendo dall’aula. Difficile riassumere meglio quello che la Procura di Milano realizza ieri mattina nell’aula dove si celebra il più spinoso tra i processi che la pubblica accusa si trova a sostenere nel capoluogo lombardo, quello per i dossier illegali di Telecom e Pirelli. Perché i pubblici ministeri Stefano Civardi e Nicola Piacente vengono scoperti mentre cercano di incastrare un imputato contestandogli un nuovo capo d’accusa, un nuovo reato. Niente di strano. Se non fosse che per quel reato l’imputato è già stato inquisito, processato, e ha accettato il patteggiamento. Ovviamente, quindi, non può essere processato un’altra volta. E la Procura avrebbe dovuto saperlo perfettamente. Ma l’errore è stato scoperto, lasciando esterrefatti tutti i presenti all’udienza, a cominciare dal giudice Mariolina Panasiti.
Protagonista del caso, un imputato assolutamente marginale del complesso affare Telecom: Fabio Bresciani, sottufficiale della Guardia di finanza, accusato di avere realizzato un falso verbale a carico di un’impresa di Vetralla, in provincia di Viterbo. Il suo difensore, Daniele Maggi, ieri chiede - essendo l’episodio avvenuto a 500 chilometri da Milano - che il processo venga trasferito alla sede competente. Ma i rappresentanti della Procura si oppongono. E per cercare di tenere il processo a Milano muovono a Bresciani una nuova accusa, per un altro verbale di ispezione, realizzato sotto la Madonnina. Sembra una mossa vincente. In realtà è una vecchia accusa già definita in un altro processo, dove a rappresentare la Procura erano gli stessi pm. Nel marasma di un’inchiesta sterminata, il doppione potrebbe passare sotto silenzio. Invece l’avvocato del finanziere se ne accorge. Gelo in aula. Anche perché a quel punto la Procura non ha più la possibilità di fare marcia indietro. E l’imputato rimane sotto processo a Milano grazie a un’accusa per la quale non potrà mai essere condannato.
Ma non è l’unica singolarità della udienza di ieri, in un processo dove gli schemi consueti si stanno ribaltando, e dove la Procura viene accusata di avere usato il guanto di velluto nei confronti di alcuni personaggi dell’affare dossier: in particolare, Marco Tronchetti Provera e i manager a lui più vicini, che giurano di non avere mai saputo nulla dei metodi impiegati da Giuliano Tavaroli, capo della security aziendale. Ieri a mettere nero su bianco il nome di uno dei «miracolati» dalla Procura provvede direttamente il giudice preliminare Mariolina Panasiti. Nel provvedimento in cui rifiuta di interrogare in aula come teste Giancarlo Valente, funzionario della security e gestore del «fondo del Presidente», la Panasiti scrive che Valente non dovrebbe essere un testimone ma un indagato, visti gli indizi a suo carico.

Ma se la Procura non lo ha incriminato non può essere il giudice a rimediare.

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