MilanoUfficialmente è allestero per lavoro, ma se non si costituirà in fretta alla Guardia di finanza, verrà dichiarato latitante. Massimo Ponzoni, quarantenne ex enfant prodige del centrodestra in Lombardia, già assessore regionale e coordinatore del Pdl in Brianza, è stato colpito ieri da ordine di custodia in carcere della Procura di Monza insieme ad altre quattro persone. A Ponzoni il mandato di cattura contesta una serie di diciotto capi daccusa che vanno dalla concussione, alla corruzione, al finanziamento illecito dei partiti, fino alla rivelazione di segreto dufficio. Ma il numero e la varietà dei reati contestati è ancora poca cosa di fronte al quadro complessivo che di lui dipinge la Procura di Monza: un politico cocainomane e amante del lusso, appoggiato elettoralmente della ndrangheta e pronto a vendere delibere e nomine in cambio di quattrini e appoggio politico.
La situazione è talmente sconcertante nella sua gravità che il governatore della Lombardia Roberto Formigoni (il cui nome compare nellinchiesta per regali ricevuti da Ponzoni) deve precisare che «si tratta di responsabilità personali, non esiste un caso politico e morale nel Pdl lombardo». Nessuno, nel mondo della politica, esprime solidarietà a Ponzoni, né tantomeno stupore: anche perché la tempesta che si stava addensando sulla sua testa era da tempo di dominio pubblico, specie dopo che il tam tam politico-giudiziario era stato bruscamente confermato dalla comparsa del suo nome nellordinanza di custodia contro i clan della ndrangheta. Ponzoni era indicato senza eufemismi come «parte del capitale sociale» dei clan.
Le attenzioni della Procura e delle fiamme gialle hanno iniziato a concentrarsi su Ponzoni a partire dal crac della Pellicano srl, una società immobiliare di cui era socio con altri esponenti del Pdl lombardo, i consiglieri Giorgio Pozzi, Massimo Buscemi e la moglie del coordinatore Gianfranco Abelli (entrati poi in rotta di collisione con lui al punto di fargli pignorare lo stipendio di consigliere regionale). Spunto decisivo il ritrovamento di una sorta di «testamento» di un suo collaboratore, Sergio Pennati, contenente accuse micidiali poi confermate da Pennati nei suoi interrogatori e sostenute da una serie di riscontri.
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