Guido Mattioni
nostro inviato a Venezia
«Io sono israeliano!», scandisce Ferdinando Adornato, presidente della Fondazione Liberal, parafrasando quella storica frase - «Ich bin ein Berliner» - gridata da John Fitzgerald Kennedy, il 26 giugno '63, davanti al muro della vergogna. E aggiunge che «lEuropa tutta dovrebbe dire, unita: noi siamo israeliani». Gli fa eco, nel suo intervento a chiusura della sesta edizione dei Colloqui di Venezia, dedicati questanno ai rapporti tra lo Stato ebraico e lOccidente, lex ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio italiano, Gianfranco Fini. Ricordando a questo Vecchio continente, ormai così vecchio da essere diventato cieco e sordo, «che chi teorizza la Jihad, o il califfato mondiale, ha capito che annientare Israele significa annientare lOccidente. Perché lo scontro tra civiltà si combatte già, e non soltanto in Irak e in Afghanistan, ma anche a Gaza».
Ma va oltre, lex ministro degli Esteri del governo Berlusconi. E lancia quella che lui stesso definisce una «provocazione», se non un paradosso. La lancia contro qualcosa che ormai è diventata una «liturgia», ovvero il concetto di «due popoli e due Stati», ultimo anello di quella Road map che nelle buone intenzioni dovrebbe portare alla pace. Fini non nega il valore positivo di questa «obbligatoria dichiarazione di fede» il cui obiettivo, dice, «è molto bello e molto nobile». Ma rivolge un doveroso appello al realismo dal momento che «poche volte, o quasi mai, si sono levate in proposito voci critiche, tese a una più attenta riflessione». Il concetto «due popoli e due Stati (Israele e Palestina, ndr) è giusto e sacrosanto, ma la pace si fa in due», ammonisce Fini. Ricordando come invece «linterlocutore di Israele è Hamas, che non riconosce il diritto di Israele di esistere. La pace si fa in due, ma se il mio obiettivo è distruggerti, è difficile arrivare a due popoli e due Stati».
Una classe politica responsabile, spiega ancora Fini, deve andare insomma oltre le belle parole. «Io ho molti dubbi che così, con questa sola dichiarazione di intenti, si possa costruire qualcosa», spiega. «Anche perché - aggiunge - pur se sembra banale ricordarlo, la natura del conflitto israelo-palestinese è oggi molto differente da quella che era prima dell11 settembre 2001». E proprio nel senso accennato prima, ovvero che a partire da quella terribile data cè chi ha capito che lannientamento dIsraele sarebbe soltanto il preludio dellannientamento dellintero Occidente. E in tal senso «il pericolo oggettivo», spiega Fini, è rappresentato da «quellintegralismo, figlio di radicalismo e fanatismo, che sta dando dignità alle masse arabe dopo un lungo periodo di marginalità, convincendole che ora esse sono in grado di cambiare la storia».
Riporta, Fini, anche fatti poco noti al grande pubblico, giustamente impressionato dalle bellicose quanto ben pubblicizzate dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad. Lo fa ricordando come il 20 ottobre scorso, data che a Teheran coincide con una «festività» che incita alla guerra contro Israele, su due dei principali quotidiani di quel Paese sono state scritte cose terribili, ma quasi ignorate in Occidente. Del tipo: «Hezbollah ha distrutto metà Israele, ora resta da distruggere laltra metà». Cosa non vera, ma di forte impatto propagandistico su delle masse già esaltate dallodio. O ancora: «la grande guerra ci attende. Domani, nei prossimi giorni, nei prossimi mesi, nei prossimi anni, ma comunque accadrà. E Israele scomparirà».
Una strategia chiara e ben nota, quindi, quella dellIran, ha aggiunto Fini, lamentando come invece, di fronte a una simile e palese dichiarazione di intenti, «il nostro attuale governo non sembri cosciente di quale sia la pericolosità» di Ahmadinejad. «Pericoloso proprio perché non è un pazzo, ma uno che ha capito che per stringere definitivamente Israele in una tenaglia di terrorismo, bisogna esportare il modello libanese di Hezbollah nella striscia di Gaza. Dove infatti risulta operino già cellule della Jihad». Se dunque la pace appare lontana, dice ancora lex ministro degli Esteri, «ora bisogna gestire un conflitto che sarà lungo. Perché la guerra tra civiltà non è un pericolo, cè già. E stare con Israele significa stare dalla nostra parte».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.