Il profeta del ’900 esiliato dalla gauche

francois Fejto capì in anticipo le imposture del comunismo e perciò l’intellighenzia progressista lo considerò un traditore. Giornalista e scrittore, è stato testimone dei grandi eventi del secolo, separando sempre i fatti dalle opinioni

Il profeta del ’900 esiliato dalla gauche

Maurizio Serra

Che cosa ha fatto di François Fejtö uno degli interpreti più lucidi e appassionati dell’ «orribile» Novecento? Longevità e vitalità non bastano a spiegare questa straordinaria vicenda intellettuale e umana. In lui vi erano tre uomini - il testimone o «passeggero del secolo», il giornalista e lo studioso - che riuscivano a convivere in armonia, come raramente capita, anzi aiutandosi a vicenda. Il testimone era immerso nella storia e ne aveva incrociato molti protagonisti - da Blum a De Gaulle, da Castro al Che, da Cruscev a Dubcek, da Soares a Golda Meir - il giornalista la commentava giorno per giorno, lo studioso ne esaminava pazientemente i nessi e sapeva trarne insegnamenti di carattere generale che centravano quasi sempre il bersaglio con buon anticipo sugli eventi: si trattasse della rottura tra Urss e Cina nei primi anni Sessanta, o dell’involuzione del regime di Tito in satrapia balcanica nel decennio successivo.

La stessa tripartizione ricondotta a unità, si osservava nelle sue origini: ungheresi, ebraiche e francesi. Con una quarta, che divenne poi una marcia in più: l’amore per l’Italia, scoperta negli anni Trenta da rampollo dell’ultima stagione della Mitteleuropea con aderenze in Friuli, ma vista col passare degli anni con l’occhio del professionista. L’Italia del dopoguerra era per lui un grande laboratorio della nuova politica, dalla contestazione all’eurocomunismo, dal terzoforzismo craxiano (al quale guardò a lungo con simpatia) alle aperture alla Russia e all’Europa centro-orientale. Semmai gli dispiaceva che il nostro paese, per la debolezza cronica (e spesso voluta) dei suoi governi, fosse incapace di svolgere fino in fondo nel contesto internazionale il ruolo che gli spettava. Lo ha scritto tante volte su queste colonne, dove il suo amico Indro Montanelli lo aveva voluto sin dagli inizi dell’avventura del Giornale, testata alla quale rimase fedele per un trentennio, ossia fino a che tenne la penna in mano.

I suoi interessi erano stati in origine prevalentemente letterari, come attesta il suo primo libro che è un piccolo gioiello: Viaggio sentimentale, ristampato alcuni anni fa da Sellerio. Ma poi, nel clima incandescente del periodo tra le due guerre, scoprì i grandi mali del secolo: comunismo, fascismo, nazionalismo deteriore, imperialismo, crisi economica, antisemitismo. Non fu certo l’unico, ma pochi hanno mostrato tanta coerenza e tanta tolleranza nel cercare di capire le ragioni e le passioni degli uni e degli altri, evitando aprioristiche condanne. Pochi hanno parlato con tanta altezza e saggezza davvero biblica della Shoah in cui perse metà della famiglia. E ha sempre evitato di occultare errori o atrocità in nome di presunte verità superiori. Fejtö era insomma l’opposto di un Eric Hobsbawm, per citare un caso tra mille, che solo in anni recenti ha riconosciuto di aver omesso di menzionare nelle sue opere i crimini di Stalin e dell’Urss per non nuocere alla causa del comunismo.

Eppure, nessun intellettuale fu più impegnato di Fejtö. Oggi queste cose ci appaiono lontane, ma nel 1956 fu tra i pochi che riuscirono a scuotere il torpore dell’intellighenzia francese ed europea di fronte ai fatti di Budapest, subito bollati come tentativi controrivoluzionari di restaurazione fascista dalla stampa di sinistra e da non pochi settori benpensanti. Fu lui a smuovere l’allora stella del firmamento progressista, Jean-Paul Sartre, riuscendo a convincerlo dopo una notte intera di discussioni che i veri controrivoluzionari sedevano al Cremino. Nel 1968 riprese la battaglia in favore della primavera di Praga, lanciando una formula che doveva rivelarsi profetica: «Il prossimo Dubcek sorgerà al centro del sistema, a Mosca». E fu Gorbaciov, ossia la fine del sistema. Stessa battaglia dopo la fine della Jugoslavia, da lui vissuta come un dramma personale (era di origine croata, per parte materna) per la follia dei belligeranti e l’inazione dell’Europa.

Fejtö poteva sembrare attaccato a valori quasi ottocenteschi, un socialista umanitario, nemico di ogni fanatismo, ma ormai superato dai tempi. Ma a leggere e rileggere con attenzione le sue pagine migliori si scopre tutto il contrario: un’intelligenza arguta, una penna graffiante, un uomo privo di paraocchi, di grande finezza e cultura, in sintonia e perfino in anticipo sui tempi, attento ai giovani, convinto che bisogna conoscere la storia per «disintossicarla» dal cancro delle ideologie. Da lì veniva anche il suo bisogno di interrogarsi sulle origini religiose del male, come attesta il suo ultimo libro Dio, l’uomo e il diavolo (Sellerio).

È inevitabile che un personaggio così poliedrico non suscitasse soltanto ammirazione e amicizia. Gli accademici non gli hanno mai perdonato di scrivere troppo bene e di avere troppi lettori in troppi paesi. I giornalisti, specie alla France Presse dove si guadagnò per decenni da vivere, relegato in un incarico minore, non sopportavano che aderisse rigorosamente, in ogni circostanza all’aureo precetto di tenere i fatti distinti dalle opinioni. I comunisti lo hanno sempre considerato un traditore, dopo una giovanile militanza che gli permise di conoscerli bene e di denunciarne la doppiezza e la menzogna in tutte le lingue che conosceva (e talvolta, preso dall’entusiasmo, anche in quelle che non conosceva). I fascisti o postfascisti, dopo averlo messo in carcere da ragazzo, non riuscirono ad adescarlo poi. Gli israeliani, e anche molti intellettuali ebrei specie oltre Atlantico, diffidavano della sua conversione al cattolicesimo, ma i cattolici non lo ritennero mai del tutto fidato e troppo attaccato all’Antico Testamento per i gusti conciliari. Per i francesi, infine, era troppo cosmopolita e ostile al mito della grandeur. Nemmeno Mitterrand, al quale aveva inizialmente guardato con favore, gli ha mai offerto la minima prebenda. Non stupisce che si trovasse a casa sua in Italia, paese che avrà tanti difetti, ma dove tutto sommato il clima intellettuale è più libero e la corrente umana più intensa, magari anche per sfiducia nella forza delle idee.

Si potrà credere da quanto precede che Fejtö fosse diventato in una vita costellata da difficoltà, persecuzioni, esilii, uno scaltro e un po’ cinico gestore di se stesso, come capita a chi ha dovuto farsi strada in un mondo spesso ostile. Nulla di tutto questo. È rimasto fino all’ultimo un uomo innamorato della vita in tutti i suoi aspetti, profondamente onesto, ricco di curiosità, slanci e sodalizi con uomini e (soprattutto) donne quanto povero di interessi materiali, specie se qualcun altro li prendeva in carico. Di mitteleuropeo aveva conservato la nostalgia un po’ ingenua per l’impero asburgico (al quale ha dedicato un libro affascinante ma storicamente discutibile, Requiem per un impero defunto) e il senso dell’umorismo, con la capacità di prendersi in giro che è propria delle persone intelligenti. Lavorare con lui era piacevolissimo.

Una volta che discutevamo un passo del nostro libro a quattro mani, in cui avevo proposto una modifica nella sua risposta a una mia domanda, mi guardò e disse: «Ottimo. Lei mi fa dire delle cose intelligentissime a cui non avevo mai pensato!». In quel modo aveva preso in giro anche me e ridemmo di buon cuore.

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