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Proposta per la scuola: rivoluzione in classe? abolire gli esperti

Come sarà il nuovo anno tra i banchi ormai alle porte? Giorgio Israel dà seguito al dibattito aperto da Luca Doninelli sulla scuola che vorremmo

Proposta per la scuola: rivoluzione 
in classe? abolire gli esperti

Inizia il nuovo anno scolastico dopo un anno e mezzo di ministero Gelmini. È presto per un bilancio ma non per discernere le linee di tendenza. Per fortuna non è stata messa in cantiere una riforma globale. In un Paese che ha sessanta milioni di commissari tecnici della nazionale di calcio, le riforme globali sono torri di Babele in cui, attorno al progetto sconclusionato di qualche architetto prevalente se ne affollano mille che, in nome degli interessi che rappresentano, ottengono in appalto un pezzetto di costruzione. Quindi, è stato saggio non perseguire riforme epocali, ma tentare di raddrizzare la scuola con interventi specifici retti da alcuni principi riassumibili nella formula: «merito, rigore, responsabilità». Certo, ce ne vorrà per ricondurre la scuola a questi criteri, ma i provvedimenti presi hanno trasmesso segnali precisi: il maestro prevalente, la reintroduzione dei voti e del voto in condotta, il recupero dei «debiti formativi», le nuove norme in materia di formazione degli insegnanti. Si è manifestata una ripresa di rigore nell’aumento delle bocciature e nella tendenza a concedere con minore generosità voti alti. Non a caso si sono levati alti lai da parte di chi teme la distruzione della scuola del «successo formativo» garantito (in parole povere, promuovere tutti). Sono gruppi e persone appollaiati sulla scuola da decenni e che l’hanno manipolata senza riguardi.
Cosa augurare al nuovo anno scolastico? Che la presa di costoro si allenti sempre di più. A chi alludiamo? Intanto ai sindacati, e non perché non sia loro pieno diritto occuparsi di salari e normative del personale. Ma sarebbe responsabile rinunciare alla pretesa di intervenire su questioni didattiche e persino sui programmi, senza averne i titoli e la competenza. Sarebbe anche opportuno che allentassero la presa certi pedagogisti. Non ci stancheremo di ripetere che non abbiamo nulla contro la pedagogia. Ma non è accettabile la presenza di una supercasta che vuol dettare legge sull’istruzione sulla base di principi discutibili ma che, in quanto «metadisciplina», nessuno può contestare. Ancor meno accettabile è il potere dei cosiddetti «esperti scolastici» - nel migliore dei casi funzionari in pensione, nel peggiore sedicenti competenti di scuola che non hanno mai insegnato - la cui unica virtù è la conoscenza di teorie didattiche, di leggi e normative e di un gergo «politicamente corretto» in voga in certi ambienti della burocrazia di Bruxelles.
Ecco, ci piacerebbe che cominciasse a sparire dalla scuola il gergo «politicamente corretto» ripetuto a pappagallo. Vale ricordare che il segno inequivocabile di una cultura fradicia è la perdita della capacità di usare il linguaggio liberamente, il rifugiarsi come automi nella ripetizione di formulette.
Qualche esempio? La gente comune usa la parola «copiare». L'esperto scolastico non userà questo termine triviale ma parlerà di comportamenti opportunistici. Volete proporre a un gruppo di studenti un test per valutarne la preparazione? Non provatevi a usare la parola «proporre» o altre analoghe. Si deve dire somministrare i test. A me fa venire in mente un purgante o uno sciroppo, ma se non dite «somministrare» siete fuori dal gergo dell'istruzione.
Un vasto capitolo è occupato dalla terminologia inglese. Per esempio, è fine dire education, con ciò intendendo la triade «educazione, istruzione, formazione». Oppure parlare di core curriculum (in francese, socle commun) che sarebbe il nucleo delle conoscenze e competenze che «essenzializza» i «saperi paradigmatici» che consentono di «costituire un metodo di approccio alla cultura». Una menzione speciale va riservata al teaching for test. Si tratta di un approccio praticato in alcuni ambienti statunitensi e che consiste nell'impostare il programma in funzione dei test con cui gli studenti verranno valutati alla fine. Chiaramente è un'idea balzana e culturalmente degradante. È vero che viene dagli Usa, ma anche Santi Bailor (l'americano a Roma di Alberto Sordi) finì col gettar via il pane con yogurt, mostarda e marmellata. Invece c'è chi prende sul serio personaggi come la pedagogista americana Lucy Calkins, fautrice di un approccio integrato al linguaggio - simile a quello che ha condotto le scuole francesi al disastro ortografico - e che definisce lo studio della fonetica come un abuso su minori.
Manca lo spazio per citare tanti altri esempi. Mi limito a ricordare la fatidica triade conoscenze/competenze/abilità, consapevole di toccare un mostro sacro, sebbene anche gli «specialisti» ammettano (in privato) di tentare inutilmente da vent'anni di definire il concetto di competenza e che la misurazione delle competenze (che in pubblico dicono di saper effettuare con «strumenti tarati e validati») è una chimera.
Mi limito a concludere con la celebre formula meglio una testa ben fatta che una testa piena, stendardo del «saper apprendere» contro le conoscenze puramente «nozionistiche». In verità, questa idea risale a Socrate ed è risibile che si tratti di una scoperta della pedagogia moderna. A dar retta a costoro, fino a ieri, da Aristotele a Kant a Einstein, tutti erano secchioni nozionisti che non «sapevano apprendere» e insaccavano le conoscenze come salami. Invece, quel che la pedagogia saggia sapeva e praticava è che si apprende ad apprendere con la materia viva delle conoscenze e non memorizzando ricette. Perdendo questa consapevolezza l'accento si è spostato dai contenuti alla «capacità di conoscere», riducendo le discipline a una passerella per accedere a quella che viene detta la «totalità del reale». Vuote chiacchiere che esemplificano la nota definizione di Lucio Colletti della metodologia come scienza dei nullatenenti e che hanno fatto regredire la scuola verso la nullatenenza conoscitiva.
Un insegnante scrive lamentando l'obbligo di leggere e firmare fino a 380 circolari in 200 giorni di scuola per adempiere ai requisiti di certificazione di «qualità»; mentre, secondo l'Ocse, la valutazione nella nostra scuola non esiste. Anche a questo ciarpame formalistico occorrerà por fine. Nel frattempo, ogni insegnante - in quanto essere pensante dotato di libero intelletto - dovrebbe ribellarsi al gergo politicamente corretto ripristinando il linguaggio che ha dignità di pensiero. E se i metodologi lo importunano, dovrebbe chieder loro di mostrarsi capaci di spiegare l'idea di natura dell'antica Grecia o anche soltanto il significato del teorema di Pitagora. E altrimenti tacere.

Il che è assai probabile, visto che i metodologi disdegnano i «fatti», le «cose» di cui parlava su questo giornale, ovvero la vera sostanza dell'insegnamento.

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