La protesta alla rovescia degli studenti

Protestare, quando si è studenti, è bello, opportuno e persino doveroso. Bello: perché cosa c’è di più allegro che scendere in piazza – festanti e colorati – per contestare il potente di turno, ministro o governo che sia, di qualsivoglia colore? Opportuno e persino doveroso: perché per un giovane è un esercizio alla vita civile, sociale e politica, un modo di far sentire le proprie opinioni anche nell’età in cui non si può votare, scrivere sui giornali ecc. E se i ragazzi talora esagerano nel fare più casino del necessario, ebbene pazienza, non a caso son ragazzi.
Quel che preoccupa, piuttosto, sono i motivi per cui si decide di scendere in piazza. Prendete il caso di ieri. Le organizzazioni sindacali ce l’avevano – è il loro mestiere - «contro i tagli al settore dell’istruzione», ovvero soprattutto contro la prevista riduzione di precari e personale di ruolo. E gli studenti dietro, senza pensare che proprio la sovrabbondanza degli insegnanti – un esercito smisurato – è uno dei mali principali della nostra scuola, diventata un ammortizzatore sociale contro la disoccupazione di diplomati e laureati, con un patto sciagurato durato decenni fra Stato e insegnanti: io ti pago poco, ma ti chiedo poco. Invece, gli studenti scesi in piazza dovrebbero essere in grado di pensare con la propria testa: pretendere, piuttosto che un oceano di insegnanti, meno insegnanti ma più preparati, meglio pagati, meglio motivati. Perché è sulla qualità degli insegnanti, non sulla quantità, che si gioca il futuro di chi studia.
Invece l’Unione degli Studenti, ha occupato le piazze di oltre cinquanta città per avanzare, come si legge in un comunicato, «Quindici richieste precise al Governo, che vanno dal ritiro dei tagli alla scuola, alla richiesta di portare l'incidenza della spesa per la formazione sul Pil ai livelli europei, alla copertura finanziaria totale dei corsi di recupero». Si tratta ancora di richieste economiche, di quantità piuttosto che di qualità, peraltro disinformate o in malafede, perché la spesa italiana per l’istruzione pubblica è allineata con quella europea. Il fatto è che spendiamo male, soprattutto – appunto – in troppi e miserabili stipendi a troppi insegnanti.
Altri sarebbero i motivi per lamentarsi, e il principale stava in tutti i telegiornali dell’altroieri e in tutti i quotidiani di ieri: secondo l’autorevole classifica del Times Higher Education Supplement, fra i duecento migliori atenei del mondo ce n’è solo uno italiano, quello di Bologna, modestamente centosettantaquattresimo. A proposito di «medie europee» di cui preoccuparsi davvero, la Gran Bretagna ne ha 29, la Germania 10, e Paesi molto più piccoli del nostro – Belgio, Svizzera, Paesi Bassi – da 5 a 11.
Né c’è da dire che le università ci manchino, anzi: la loro abbondanza (i più vogliono studiare sotto casa) è una delle cause del disastro: abbiamo 95 atenei con 320 sedi distaccate. Ci sono 327 facoltà che non superano i 15 iscritti e addirittura 37 corsi con un solo studente. Le materie insegnate sono 170.000 (media europea 90.000) e i 5.500 corsi di laurea sono il doppio della solita media europea. In un sistema sano, numeri simili dovrebbero portare a iperspecializzazioni di sopraffina eccellenza. Invece riducono fatalmente le nostre università a laureifici in serie, fabbriche di disoccupazione e di scontentezza.
Gli studenti scontenti dei professori, i professori scontenti degli studenti, entrambi i gruppi dovrebbero scendere in piazza non contro i tagli, ma con slogan del tipo: «Tagliamo!/Tagliamo!/Vogliamo/Qualità». Visto che è troppo sperare, e visto che la responsabilità va attribuita non agli ultimi governi, ma alle ultime decine di governi, non resta che sperare nelle ottime intenzioni del ministro Gelmini, che parte da un principio sano: più denaro alle università virtuose, meno alle altre. Certo, alcuni aspetti della sua annunciata riforma sono migliorabili (ne ha parlato ieri, su queste pagine, Stefano Zecchi): per esempio c’è da abbattere sul serio il sistema baronale, che da sempre inquina atenei, ricerca, apprendimento. Parliamo di cattedre assegnate per potentati e sudditanze più che per merito e necessità formative, per distribuire stipendi di precariato stabilissimo più che per partecipare alla competizione dei migliori a livello mondiale. Occorre dunque favorire il mercato delle menti, eliminando i parassiti dalle comode cucce in cui si adagiano tradendo uno dei principali compiti di chi insegna: passare la vita cercando di rinnovare e non di perpetuare.


E è paradossale che protestino proprio studenti che – in gran parte – sognano di studiare all’estero, magari in una delle università inglesi o americane in testa alla classifica del Times: università che, non a caso, sono tutte fondate sul mercato, sulla competizione, sulla meritocrazia, ovvero su caratteristiche opposte a quelle che si vorrebbero mantenere da noi.
www.giordanobrunoguerri.it

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