Lo psicodramma Milan è un caso politico

DELUSIONE A Villa Gernetto Galliani si sfoga: «Nel calcio non c’è riconoscenza»

Il Milan era il suo vanto, sta diventando la sua spina in gola. Lo utilizzò come spot nella sua prima campagna elettorale, marzo del ’94, la squadra di Capello in rotta verso l’ennesimo scudetto e la finale trionfale di Champions League ad Atene contro il Barcellona di Cruyff. «Ma come può competere con me uno che non ha mai vinto scudetti né coppe dei Campioni?» chiese stupito Silvio Berlusconi a chi gli parlò del professor Spaventa, il candidato rivale schierato dal Pds nel collegio romano scelto come debutto elettorale del futuro premier post-Tangentopoli. Quel Milan era il suo vanto personale, motivo di puntuali soddisfazioni e passerelle, tra il popolo rossonero in amore a San Siro, lo stadio della sua gioventù, «andavamo col tram in piazzale Lotto e poi a piedi, io, Silvio e suo papà Luigi» il ricordo di Fedele Confalonieri raccolto dall’album di famiglia. Proprio di Fidel, il consigliori più ascoltato, fu l’ultimo accorato appello lanciato un anno fa dalle colonne de il Giornale. «È un errore considerare il Milan un costo, è come la Scala» osservò schierandosi dalla parte di chi chiedeva per la squadra diventata «il club più titolato al mondo», 26 trofei conquistati tra l’Italia e l’estero, un segno di attenzione e di amore dopo aver incassato la cessione di Kakà. Oggi Confalonieri è al fianco di Silvio, «servirebbe uno sceicco per i costi del calcio, e in circolazione ce n’è uno solo, Moratti», al pari di Galliani e del gruppo storico di collaboratori con i quali nel lontano febbraio dell’86 decise il grande passo, l’acquisto del Milan, «un affare di cuore». «Evitammo il fallimento, cancellammo due cessioni già pronte, Franco Baresi e Paolo Maldini, dimenticammo le due retrocessioni in B collezionando otto finali di Coppa dei campioni. «Signori: questa è una carriera stratosferica» la filastrocca di Adriano Galliani, ripetuta anche ieri pomeriggio a Villa Gernetto, Lesmo, la nuova residenza del premier, aperta, «al Milan dopo l’inaugurazione concessa a Putin» a dimostrazione concreta della parentela stretta tra il club e Silvio Berlusconi.
Da qualche tempo, il Milan è diventato la spina in gola di Berlusconi. Eppure è solo da tre anni che il Milan ha smesso di stregare la platea calcistica: nel dicembre del 2007 il viaggio di ritorno da Yokohama con le insegne di campione del mondo per club. Tre anni che da queste parti sono una eternità, specie se nel frattempo l’Inter di Moratti, rilanciata da Calciopoli, ha preso a far collezioni di scudetti e, per la prima volta dopo una vita, a raggiungere la finale di Champions. Il primo colpo inferto alla popolarità del leader venne dalla cessione di Kakà, decisa per ripianare il deficit, 70 milioni tondi destinati a pareggiare i conti. «Quella cessione mi è costata 3 punti percentuali alle Europee» fu lo sfogo dello stesso Berlusconi a urne aperte, inserendo nel calcolo anche le esternazioni di Veronica Lario e gli effetti perversi dei dissidi interni al Pdl in Sicilia. Di sabato scorso, sera di Milan-Juventus, struggente addio a Leonardo, la seconda stilettata nel fianco: lo striscione esposto in curva sud con quel «Presidente bocciato: assente ingiustificato».
«In effetti non si è trattato di una feroce contestazione» è l’ammissione di Galliani ma nel patron del Milan (per il conflitto d’interessi, la carica di presidente è vacante) l’amarezza c’è e avanza, «pari alla consapevolezza che non c’è riconoscenza, nel calcio come in politica», ogni riferimento a Fini forse non è involontario. Questo sentimento è lo stesso rintracciato in un lancio d’agenzia del settimanale A con il resoconto dell’ennesimo sfogo del premier ad alcuni fedelissimi del Pdl, smentito in modo netto dall’ufficio stampa del partito a stretto giro di comunicato. Il «quasi quasi rinuncio al Milan» è una contraddizione evidente, sintesi di un ragionamento diverso. Quale? Eccolo nel resoconto dei soliti trombettieri di palazzo Madama: «Vendere il Milan mi costerebbe in termini di popolarità, non è una decisione facile. Vi ricordate quando ho venduto Kakà? Ci ho rimesso 3 punti alle Europee. E poi con la crisi economica che c’è non è facile trovare un acquirente». Ecco la tenaglia nella quale il Berlusconi politico sembra ritrovarsi stretto: da una parte l’impossibilità di trovare sul mercato un acquirente affidabile per il club (quotato 700 milioni), dall’altra la consapevolezza che i mancati successi del Milan e i ridotti investimenti (per rispetto anche al ruolo e alla crisi economica mondiale) possano contribuire a erodere il consenso plebiscitario raccolto tra i tifosi rossoneri (8 milioni). È difficile, molto difficile che Silvio Berlusconi rinunci al suo Milan, «che resterà sempre nel mio cuore». «Se volesse abbandonare non ci avrebbe invitato qui» osserva Galliani accompagnando a cena tutti gli sponsor che possono arricchire il fatturato rossonero e trovare nuovo slancio dalla presenza del premier, chiamato a risolvere anche il quiz del prossimo allenatore. Diventato quasi quasi più complicato della scelta del successore di Scajola.

Ma il premier è apparso tutt’altro che abbacchiato e pronto a raccogliere la nuova sfida in rossonero, anche quella della contestazione. Su cui ha scherzato con Galliani, chiedendo di fare entrare allo stadio solo gli striscioni positivi, stile «Meno male che Silvio c’è».

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