Pugni, calci e insulti alla donna fermata: 5 vigili sotto inchiesta

Ingiustamente sospettata di borseggio, sarebbe stata picchiata in auto e al comando. Dopo le botte la minaccia: «Se dici qualcosa ti ammazziamo»

Enrico Lagattolla

L’occhio tumefatto, i lividi sulle braccia e sulle gambe, i capelli strappati. Immagini di un pestaggio, foto di V. B., 52 anni, cittadina maltese ma da vent’anni residente in Italia. Istantanee arrivate in Procura, e che chiamano in causa cinque agenti della polizia municipale. Dal racconto della vittima, sarebbero loro i responsabili dell’aggressione. Dopo un’inchiesta lunga quasi due anni, complice anche la palude di omertà in sui si sono imbattuti gli inquirenti, il pubblico ministero Edi Pinatto ha notificato ai cinque «ghisa» l’avviso di chiusura delle indagini. Le accuse a vario titolo sono di lesioni personali aggravate, ingiurie, concorso in violenza privata, favoreggiamento personale, omessa denuncia di reato. Per gli agenti potrebbero aprirsi a breve le porte del tribunale.
Estate 2004, 7 agosto. V. B. si trova in un negozio d’abbigliamento di corso Buenos Aires. In quello stesso negozio, una cliente si accorge di essere stata scippata del portafoglio. Vengono chiamati i vigili, che dal comando di zona Porta Venezia, in via Settala, arrivano in poco tempo sul posto. V. B. viene additata come la responsabile del furto, al quale, in realtà, risulterà estranea. Viene immediatamente caricata sull’auto di servizio. Ed è qui che comincia l’aggressione.
Si legge nel capo d’imputazione che «a bordo dell’autovettura di servizio, durante l’accompagnamento per l’identificazione presso l’ufficio di polizia», due agenti «percuotevano ripetutamente la persona offesa con pugni al volto e alla testa», e mentre uno dei ghisa, una donna, «la tratteneva per i capelli» un altro «arrestava la marcia del veicolo infliggendole i pugni». Ma è solo l’inizio.
Ancora, scrive il pm che «giunti all’ufficio di polizia giudiziaria, la persona offesa veniva trascinata per i capelli fuori dall’abitacolo e gettata in malo modo per terra». Poi, «nell’ufficio V. B. veniva sbattuta contro il muro, trascinata energicamente per i capelli» finché l’agente «rimaneva con una ciocca in mano, che veniva agitata per aria gridando "sei una merda, sei una puttana, hai rubato il portafoglio", percuotendola ripetutamente con calci alla testa, al petto e alle cosce, mentre quella si era rannicchiata per la paura».
Ultimo atto, la perquisizione. Portata nel bagno, la ghisa «le sbatteva ripetutamente la testa contro il muro», mentre un altro «la percuoteva con calci alla testa fino a farla svenire». Quasi finita. Quasi. Perché una volta che V. B. si riprende, arrivano le minacce. «Guai a te se parli». Nessuna denuncia deve essere fatta. E uno dei cinque agenti, ancora la donna, fa il gesto della pistola con la mano. L’indice e il medio premuti contro la tempia, il pollice che simula il grilletto. «Bum», e taci.
Infine, il favoreggiamento e l’omessa denuncia. Uno dei cinque, infatti, non avrebbe denunciato l’accaduto all’autorità giudiziaria, e - in un secondo momento - avrebbe mentito al pubblico ministero, dichiarando «con assoluta certezza che la donna non presentava alcun livido visibile sul corpo».

Diversi i referti del pronto soccorso del Fatebenefratelli, che il 7 e l’8 agosto registrano «una ferita al sopracciglio dell’occhio sinistro, escoriazioni a braccia e addome, contusioni alla coscia sinistra». Una prognosi di 15 giorni, un incubo da cui è più difficile uscire.

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