La punk Decq sfida la fredda Hadid Poi tutti dal Macro alla festa dei vip

da Roma

Una delle poche cose che l’accomuna con Zaha Hadid, a parte il fatto di essere entrambe architetto ed entrambe donne, è la predilezione per il nero. Negli abiti, ma anche nel lavoro. Odile Decq, parigino-bretone, cinquantacinque anni e trenta di luminosa carriera, commendatrice dell’Ordine delle arti e delle lettere e Cavaliere della Legion d’onore, ha firmato l’ampliamento del Macro, il Museo d’Arte contemporanea di Roma, cugino minore del Maxxi, realizzato a un paio di quartieri di distanza dalla collega anglo-irachena. Diversissime e veneratissime, sono le due grandes dames dell’architettura internazionale, per caso costrette a lavorare nella stessa città e negli stessi tempi, le quali a parole negano qualsiasi competizione, ma che nei fatti hanno accuratamente evitato di visitare - e a maggior ragione di giudicare – una l’opera dell’altra. Entrambe inaugurate in contemporanea ieri. E con tanto di mega-party esclusivissimo in serata. Dividendo in due i vip, la politica e l’intellighenzia italiana e internazionale.
Due donne, due capolavori. E una stessa Roma sempre più eterna nella sua post-modernità. Zaha Hadid è come il Maxxi: imponente, glaciale, respingente. Odile Decq è come il Macro: impertinente, eccentrica, coinvolgente. La prima è una diva. La seconda un folletto. Zaha è l’archistar. Odile la punk star. Look total dark – tunica, scarpe, occhiali, smalto, bracciali, trucco, capelli alla Andy Warhol – ieri Odile Decq guizzava di qui e di là, dentro, sopra, sotto il suo museo: metà black, metà red. La nuova ala che si salda al «vecchio» corpo di fabbrica del Macro (in funzione già da un decennio) è davvero qualcosa da terzo millennio, è come se avesse una «X» in più del Maxxi. Non stupisce, rassicura. Non allontana, accoglie. Non si impone, è funzionale.
Il nuovo Macro è uno spazio a misura di visitatore. Rosso come l’auditorium incastonato come un diamante nel foyer centrale e come la grande sala speculare alla piazza esterna; nero come i passaggi sospesi che collegano i tre piani del museo e come il cinematografico tetto-terrazza sul quale si affacciano i palazzi circostanti; bianco come lo spazio espositivo della collezione permanente recuperato nell’ex fabbrica del ghiaccio e come le facciate dei due edifici (abitati) di fronte alla terrazza che fanno da gigantesco «telo» per le proiezioni di video-arte. È Macro, eppure micro per costi e superfici espositive rispetto al Maxxi: il primo, 27mila mq di vetro, acciaio e cemento, è costato 20 milioni di euro (fondi del Comune di Roma); il secondo, 19mila mq di specchi-vetrati, ferro e basalto, oltre 100 milioni (fondi del ministero dei Beni culturali). Il primo è concluso. Il secondo no.
Odile Decq è il suo Macro: spettacolare. Sicura di sé, decisa, ma umile quanto è necessario per prendersi cura delle opere d’arte, ossia - in questo momento - alcuni macro-Schifano, macro-Kounellis e macro-Gupta che troneggiano nella grande sala delle esposizioni temporanee, nel cuore del museo, accanto alle altre della collezione permanete nella «sala bianca». Un invidiabile equilibrio tra la Forma e i Contenuti.

Anche se la cosa di cui più va fiera Odile sono i bagni. High tech, avveniristici, specchianti e con i lavandini che si accendono di rosso e le luci che si spengono quando scorre l’acqua. Architettura sensoriale di archi-punk.

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