Quando canta la regina

C’è musica nera per ballare e musica nera per pregare o sostenere le battaglie per i diritti civili. A questo filone impegnato si collega il possente contralto di Mavis Staples, storica voce (al fianco del mitico papà Roebuck Pops, delle sorelle Cleotha e Yvonne, del figlio Purvis) degli Staple Singers, nati nel 1948. È stata una maestra e un punto di riferimento persino per Bob Dylan, che da lei ha imparato la pugnace vivacità di alcuni inni blues, del gospel e dello spiritual, del soul più ispirato.
Black music di alta caratura espressiva che stasera approda all’Arena per il Milano Jazzin’ Festival, che sorprende continuamente il pubblico per la qualità delle scelte musicali. Sin dai primi anni Cinquanta il combattivo contralto di Mavis ha segnato la scena di Chicago fondendo le atmosfere delle chiese nere, i suoni urbani e quelli del Delta del Mississippi. Ispirandosi a Dorothy Love Coates (grande figura gospel esplosa nelle Original Gospel Harmonettes e moglie di artisti come Willie Love e Carl Coates, rispettivamente dei Farfield Four e dei Sensational Nightingales) e alle Davis Sisters (da non confondere con l’omonimo gruppo country) si è imposta nel 1956 guidando le armonie vocali della famiglia in Uncloudy Day, diventato subito un enorme successo.
Tra le sue interpretazioni con la band di famiglia spicca la cover del traditional Will The Circle Be Unbroken (cavallo di battaglia di mille artisti country), This May Be the Last Time, Are You Sure, Hammer & Nails, il drammatico Drown Yourself. I suoi brani non sono solo intrisi di passione, sensualità e fervore religioso; sin dagli anni Sessanta Mavis è in prima fila nella stagione di protesta per i diritti civili al fianco di Martin Luther King (dell’epoca è Move Along Train).
L’anno scorso, per ricordare quell’intensa stagione di canti di protesta e d’amore, ha pubblicato l’album We’ll Never Turn Back, con la preziosa collaborazione di Ry Cooder, Ladysmith Black Mambazoo, del basso Charles Neblett e del soprano Rutha Mae Harris (entrambi negli anni Sessanta spopolavano ai folk festival nei Freedom Singers).
«Un tempo, quando cantavo il gospel con papà, lottavamo al fianco di Martin Luther King scrivendo brani come Why Am I Treated So Bad - ricorda Mavis -; siamo stati in prigione a Memphis nel 1965, abbiamo anche rischiato l’impiccagione. Ora le cose sono cambiate, così quando mi è stato proposto questo disco dapprima ho nicchiato. Ho detto: ma a chi interessano queste vecchie canzoni? Ma poi ho visto quei poveracci annegare nelle acque fangose di New Orleans, ho visto un poliziotto di New York sparare per nulla a un giovane nero. Così ho pensato: i giovani hanno bisogno di questa musica come ne avevamo bisogno noi».
Quindi il disco, e di conseguenza il concerto, sono un percorso a ritroso nella tradizione che abbraccia l’inno We Shall Not Be Moved e la sferzante Jesus On the Main Line (inno dei bluesmen da strada e degli evangelisti con la chitarra), passando per Down In Mississippi di J. B. Lenoir, l’uomo che trasformo l’allusività del blues in protesta e rabbia. Naturalmente si tornerà anche ai brani - già citati - della storia degli Staples, compresa la magnifica cover di For What It’s Worth di Stephen Stills. Un viaggio di suoni e passioni che evoca il blues e i canti di lavoro, la spiritualità selvaggia delle «sanctified church» e gli innari del Dr. Watts, il funky e il soul poetico e consapevole di Marvin Gaye.

Grande musica, ricca di vita e di storia, anche se - in parte - basata sull’utopia che «tanta gente ispirata da un sogno abbia cercato di spegnere la sua sete di giustizia nelle fontane del perdono e dell’amore», come scrive nelle note del cd il leader dello Student Noviolent Committee John Lewis.

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