Cristiano Di Pietro è nato il primo ottobre 1973 a Vasto, in Abruzzo, al confine col Molise. Per andarci, sino a poco tempo fa, si doveva prendere l’autostrada adriatica e uscire a Vasto Sud: ora, dopo che Di Pietro è stato ministro delle Infrastrutture, l’uscita ha cambiato nome ed è diventata «Montenero di Bisaccia/Vasto Sud». Antonio Di Pietro aveva conosciuto Isabella Ferrara, la futura moglie, durante una delle ultime licenze da militare. Fu un matrimonio riparatore: apprese che era incinta nel febbraio del 1973 e si sposarono il 7 aprile successivo.
Di Pietro si presentò in chiesa con basettoni, vestito nero attillato, papillon, calze bianche e cinturone. Dopo un viaggio di nozze di dieci giorni (Roma-Rimini-Svizzera) con tanto di colonna sonora dell’idillio (Montagne verdi di Marcella Bella) lui andò subito a Milano perché aveva vinto il concorso in Aeronautica. Lei presto l’avrebbe raggiunto, ma voleva assolutamente partorire a Vasto, nella sua terra: quando accadde, purtroppo, papà era appena ripartito.
Di Pietro decise di smettere di fumare e si fece crescere la barba. Una foto dell’epoca lo mostra in scarpe bianche, pantaloni bianchi, giacca bianca, cravatta bianca e camicia nera. Nell’appartamento definitivo, a Lurago d’Erba, 35 chilometri da Milano, andarono nel giugno 1974, ma poi comprarono casa in un paesino adiacente, Lambrugo. Stando alle biografie, Di Pietro passava ore e ore con Cristiano: gioco preferito, secondo il figliolo, era «la lotta». Era un bambino buono: aveva preso il fisico dal padre e il carattere dalla madre.
Papà ogni tanto si arrabbiava perché il bimbo era poco ambizioso: da grande, diceva, voleva fare il camionista. «Mi ricordo», ha rammentato Cristiano, «quella volta che mi ha regalato un orsacchiotto, Gelsomino. Mi raccontava che andava nelle foreste dell’Amazzonia».
Orsi in Amazzonia: questo nel lasso di tempo che secondo la leggenda vide Di Pietro laurearsi in giurisprudenza (1974-1978) e diventare vicecommissario e poi addirittura magistrato. Fu nel periodo successivo che la storia con Isabella cominciò a scricchiolare. Di Pietro, da neo magistrato, fu destinato a Bergamo e si prese due stanzette in città, in via Mazzini. Decisero per la separazione, e qui accadde qualcosa che la moderna giurisprudenza non sa spiegare: il padre reclamò Cristiano, che aveva quasi dieci anni, e vinse lui. Vendette la sua parte di casa a Isabella, e salutò. Dopo un periodo un po’ allegro, nei ranghi di certa Bergamo-bene, Di Pietro conobbe la neo futura moglie Susanna Mazzoleni. Lui 34 anni, lei 31: alta, robusta, originaria di Rota Imagna, figlia di Arbace Mazzoleni, classe 1916, ex ufficiale dei carabinieri e rinomato avvocato: Susanna era un cremino di quella borghesia bergamasca che odia Milano e non ci vivrebbe mai, e per Di Pietro rappresentava un nuovo status sociale.
Lui, ovviamente, rimase attaccatissimo a Cristiano: e infatti, il 13 giugno 1987, quando andò a Montenero per il funerale del padre Giuseppe (travolto da cinque balle di fieno mentre scaricava un trattore) in auto con lui c’è solo il figlio. I rapporti tra Susanna e Cristiano furono a dir poco pessimi. Litigavano. Forte. Da una biografia di Gigi Moncalvo (Edizioni Paoline, 1992) Di Pietro espunse di proprio pugno una parte dove si accennava a faccende di frigoriferi divisi e di linee telefoniche separate. Il padre disse al figlio che doveva andare in collegio. Lui puntò i piedi, ma dovette cedere, anche perché di tornare a Lambrugo dalla madre aveva ancor meno voglia.
Decisero per il convitto Esperia di Bergamo, dove stette per due anni.
Dalla citata biografia di Moncalvo, Di Pietro tagliò questa opinione di Isabella Ferrara sulla Mazzoleni: «Non posso certo stimarla per il modo in cui si è comportata con Cristiano: prima l’ha convinto ad andare a vivere con lei e Di Pietro. Poi, una volta nata la bambina, l’ha abbandonato a se stesso». Tagliata anche questa opinione di Cristiano: «Io e Susanna siamo come cane e gatto. Lei è gelosa di me perché vede che io e papà siamo così uniti. Infatti è questo il motivo che mi ha fatto andar via di casa scegliendo il convitto». Poi Mani pulite, e tutto che va improvvisamente a meraviglia. Cristiano ottiene di fare la maturità in solitaria e riesce finalmente a passare. A Milano vince il concorso di polizia col primo posto su centocinquanta partecipanti, e papà interviene alla cerimonia. Cristiano, in un’intervista rilasciata dopo il giuramento, dice: «Imparare a sfondare una porta, come mettere le manette, in che modo presidiare un posto di blocco, è quello che mi attira di più in questo lavoro».
Papà ottiene un equo canone dietro piazza della Scala dalla Cariplo di Sergio Radaelli, segretario del sindaco Paolo Pillitteri, e ci piazza Cristiano: questo nonostante il contratto vietasse tassativamente qualsiasi tipo di subaffitto. Intervistato proprio in quella casa, con lo stemma della Procura appeso in corridoio, e la maglietta «Milano ladrona, Di Pietro non perdona», Cristiano disse: «Da una parte non vedo l’ora che finisca questa inchiesta per poter tornare a giocare a calcio con lui; dall’altra, non vedo l’ora che spacchi il culo a tutti. Glielo dico sempre: rompigli il culo, papà. Sono un suo tifoso, ho comprato le magliette di Mani pulite, pure i palloncini». Papà, invece, gli stava per comprare una casa, a Curno, con i famosi 100 milioni «prestati» da Giancarlo Gorrini, lo stesso imprenditore ex inquisito che a Cristiano aveva dato un misterioso stipendio senza lavorare.
Poi, il 28 aprile 1994, durante il processo Cusani, tra una sospensione e l’altra ecco il colpetto di scena: si trova una bomba in aula. È un affare di famiglia: la scopre Cristiano Di Pietro, anche se è solo una bombetta a mano, da esercitazione, una specie di petardo per soldati di leva. I giornali ovviamente enfatizzano: chi non racconterebbe una storia così? Il giudice buono stava per condannare il cattivo, ma un’associazione di altri cattivi ha messo una bomba; ma ecco, il figlio del giudice buono accorre, e lo salva. Il cattivo, Sergio Cusani, beccherà otto anni. Di tutto il resto si è già scritto. Cristiano, da poliziotto, ottiene l’avvicinamento a Vasto: e non si sa come.
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