di Marco De Bellis*
Un principio generale sancito dalla Legge (art. 2.105 del Codice civile) stabilisce il divieto, da parte del lavoratore, di trattare per conto proprio e/o di terzi affari in concorrenza con l'imprenditore, nel medesimo settore commerciale o produttivo.
Ovviamente, il divieto vale (solo) per tutta la durata del rapporto di lavoro (salvo l'eventuale sottoscrizione di un patto di non concorrenza). Chiarito il principio, resta qualche problema dal punto di vista interpretativo. Ci si chiede, infatti, se il dipendente possa svolgere un'attività che il datore di lavoro non svolga più da tempo o che abbia manifestamente dichiarato di non voler svolgere. Ci si chiede inoltre se, perché vi sia una violazione nel dovere di fedeltà, sia necessario che l'attività in concorrenza venga concretamente svolta (e che, dunque, il datore di lavoro subisca un danno economico) oppure se sia sufficiente la semplice predisposizione di atti preparatori all'attività concorrenziale.
Vediamo con ordine. Per quanto riguarda l'individuazione dell'attività, secondo la prevalente giurisprudenza, il punto di riferimento principale è costituito dall'attività indicata nell'atto costitutivo o, comunque, nei documenti ufficiale del datore di lavoro. Si tratta quindi di un complesso di attività che va oltre quella concretamente svolta. Venendo al secondo quesito, la giurisprudenza prevalente individua come violazione al dovere di fedeltà, non solo il concreto svolgimento di attività in concorrenza con il datore di lavoro, ma anche il compimento di atti preparatori e univocamente diretti a svolgere tale attività.Così, a esempio, è stata ritenuta violazione del dovere di fedeltà la costituzione di una società di trasporto da parte di alcuni dipendenti di una impresa svolgente attività di autoguidovia.
*Avvocato del Foro di Milano
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