Quando facendo l'esercito abbiamo fatto gli italiani

Dall'unità all'Irak. Un nuovo saggio di Gianni Oliva racconta un secolo e mezzo passato in "grigioverde". La necessità di creare coesione nella giovane nazione contò più della strategia

Quando facendo l'esercito abbiamo fatto gli italiani

Alessandro Frigerio

Oggetto di culto delle memorie patrie, strumento di consenso o sgangherata «armata sagapò»? L’esercito italiano di popolo, quello della leva obbligatoria cancellata quattro anni or sono, ha dato vita a un immaginario collettivo mutevole, plastico, capace di intrecciarsi con la storia d’Italia e di offrirsi in pasto alle più diverse esigenze della politica.

Fin dalle sue origini, nel 1861, quando la costruzione del mito risorgimentale trovò un puntello nelle rassegne del regio esercito, intese a suscitare la legittimazione del processo unitario negli strati più bassi della popolazione. La solennità delle parate, dove il passo cadenzato delle truppe si mescolava alle musiche delle fanfare, accompagnò da vicino la costruzione dell’Italia liberale. Perché se un esercito è sempre lo specchio di una nazione, quello dell’Italia post-unitaria, come spiega Gianni Oliva in Soldati e ufficiali, l’esercito italiano dal Risorgimento a oggi (Mondadori, pagg. 464, euro 19,50) ricoprì un ruolo estremamente attivo di «ufficio stampa» delle classi dirigenti. Ebbe le sue vicissitudini organizzative, affrontò le pagine più drammatiche e sanguinose dei conflitti dell’ultimo secolo e mezzo, ma fu anche «un formidabile mezzo di comunicazione»: costruttivo negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, totalizzante durante la prima guerra mondiale, e spregiudicato al limite del velleitarismo durante il ventennio fascista.

Del resto, il nostro esercito non ha mai fatto della tecnologia o delle raffinate strategie d’impiego di uomini e mezzi i suoi punti di forza. Il corpo degli alpini, efficaci vedette poste a baluardo dei confini settentrionali, servì a saziare quella recondita esigenza di sicurezza che attanagliava un popolo soggetto a secolari invasioni. I bersaglieri, con la loro prestanza fisica, sembrarono riuscire a sopperire alle richieste di mobilità degli eserciti moderni. Mentre la riforma Ricotti, prendendo a modello il vittorioso esercito prussiano di Sedan, introdusse finalmente l’obbligo di addestramento a tutti gli iscritti alle liste di leva. Il risultato fu che alla vigilia della prima guerra mondiale, racconta Oliva, «gli ampliamenti di organico non erano privi di contraddizioni, perché gli investimenti erano mirati più all’aumento del numero delle divisioni e dei corpi d’armata che allo sviluppo equilibrato degli armamenti».

Le lacerazioni seguite al conflitto si manifestarono anche nei ranghi dell’esercito. Ma non al punto di provocare una completa adesione dei vertici militari al fascismo. Né prima né dopo. Perché se Diaz rassicurò Vittorio Emanuele III che l’esercito, se richiesto, avrebbe fatto il suo dovere contro lo squadrismo fascista nell’ottobre del 1922, a regime instaurato, e nonostante le simpatie filofasciste di molti ufficiali, l’esercito continuò a conservare la sua autonomia, barattandola con una semplice adesione alla politica mussoliniana. Ne risultò, però, una maggiore attenzione alle rendite di posizione che all’arte della guerra. Un’attenzione che sarà pagata con i disastri, non solo strategici e tattici, della guerra parallela in Grecia e Nordafrica nel 1941.

Dalla ceneri della sconfitta l’esercito italiano rinacque sotto nuove spoglie.

Sottoposto alle esigenze sovranazionali della Nato, svincolato dalle scelte della classe dirigente nostrana e in balia di costanti tagli di bilancio, ha trovato in questi ultimi decenni una sua dimensione fatta di piccoli numeri ed elevata efficienza. A suo modo anche questo è uno specchio del Paese, impegnato a cogliere nella specializzazione e nella flessibilità la sua nuova dimensione.

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