Io vedo con occhi di infinita pietà chi, a non sapere la geografia, pur con l’aiuto di mappe e di carte, non sa mai dove si trova, come è esposta la sua stanza d’albergo, in quale figura della terra o del mare può avvistare la sua presenza per dirti: «Son qui». So per esperienza che il numero di questi infelici sprovveduti, non lontano dal diminuire, si accresce vieppiù col traffico dei turisti che affollano il mondo e che viaggiano a occhi chiusi.
Il Giro e il Tour una volta erano gli Atlanti di ogni viaggio immaginario: una salita come quella di Ariano Irpino, un passo quale lo Stelvio, un monte come il Ventoux, e i Pirenei con l’Aspin, città come Pau o Barcellonette erano bene in vista in quel punto dove le indicavamo col dito o dove un giorno li avremmo ritrovati sulle tracce della nostra memoria, come avvenne.
Possiamo dire che il Tour e il Giro, nel seguirli in sogno e poi nella realtà, ebbero a mostrarci che era stata la geografia a creare il mondo e a non sbagliare di un metro nel calcolare le distanze.
\ Mentre scrivo, il Tour di Merckx, di Moser, di Gimondi e del temuto Thévenet è dentro i Pirenei di Turoldo. Ricordo, in discesa dall’Aspin, il piccolo occhio di un lago che ingrandiva sempre più per rendere più ripida quella terribile precipita discesa alla quale ormai non potevamo più sottrarci, i corridori maledicenti sul ciglio della strada contro di noi. La geografia del Tour è anche questa fede dei nomi immaginosi che la storia non può dimenticare, pur detti ancora e segnati per indicare un paese irriconoscibile: basti pensare alla greca Sparta o, per noi, a Sibari, che i molti sibariti a piede libero cercano invano sui luoghi dove dovrebbe essere e splendere.
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