Negli anni del grande ballo in maschera c’erano anche loro. Erano di meno, certo. Si riconoscevano da lontano, non solo per i vestiti, era il modo di camminare, di contarsi, di guardarsi negli occhi. Anche questi avevano vent’anni, con la stessa rabbia, sulla scena in quel rito di massa che portava la gioventù al centro della storia. Solo che erano i fascisti, i neri, la parte sbagliata della storia, gente che camminava sulla stessa strada, ma controcorrente. Sparlavano di rivoluzione, una rivoluzione conservatrice, tanto che a volte le due facce di quella stagione si assomigliavano parecchio, e forse lo sapevano anche loro, rossi e neri, di avere in fondo lo stesso odore. Questo non gli impediva di caricarsi come furie, e di azzannarsi e di ammazzarsi, come fanno gli uomini quando vogliono segnare il territorio. Tutti e due volevano bruciare il sistema, convinti che l’ultima campana della borghesia stesse per suonare. «Il capitalismo sta cominciando a morire. Il capitalismo è già morto. Il capitalismo morirà. C’è una feroce isteria nell’aria, basta osservare l’odio fra le persone, le invidie, i valori infinitamente meschini che scatenano odi ancora più meschini. C’è qualcosa nell’Occidente che crea odio: odio nell’università, nel teatro, tra i giovani di destra e sinistra, nella musica rock, negli autostoppisti, nel sesso, nei film».
Queste ultime cose le scrive Alberto Garlini in La legge dell’odio (Einaudi), lungo romanzo di uno squarcio di storia italiana, raccontato con gli occhi di chi ha il cuore nero, minoranza nella minoranza, ai margini del loro stesso partito di riferimento, figli e ribelli del Msi, ragazzi che come gli altri pensavano alla rivoluzione, ma invece che guardare alla Cina lontana si sono rifugiati nella Grecia dei colonnelli. Il romanzo di Garlini farà discutere. Perché i neri lo accuseranno di non aver capito nulla e i rossi di aver usato gli occhi sbagliati. Comunque sia lui, nato nel 1967, in questa storia fa la parte dell’intruso. Racconta quello che ancora si fa fatica a raccontare in un romanzo. E parte da una domanda. Chi sono i neri? Che ruolo hanno avuto nel grande party, nel ballo in maschera, in quella che oggi appare a chi non c’era solo una grande sbornia collettiva? Garlini parte da due fotografie. La prima è a Valle Giulia, 1° marzo 1968, è lì, quel giorno, che comincia la leggenda della contestazione. In quell’immagine, in prima fila, non ci sono solo i rossi. Ci sono i neri. La guerriglia contro i celerini porta sul selciato quelli di Lettere e quelli di Giurisprudenza, i due opposti sthendaliani della rabbia anti borghese. Solo che poi i neri sfumeranno, s’inabissano nel ricordo e riemergono come anime oscure accanto agli anarchici nella bomba di piazza Fontana. All’inizio sono diversi, ma non ancora nemici. È dopo che si divideranno il piombo faccia a faccia e cadranno ognuno a proprio modo nel delirio del terrorismo. L’altra foto, quella dello iato, è alla Sapienza. È il giorno in cui Almirante arriva nella città universitaria per riportare l’ordine e dire ai neri che loro non stanno con la rivoluzione. È qui che i destini si separano, anche se gli uni e gli altri continuano a riconoscersi dall’odore, ma è un odore di morte.
Garlini comincia a seguire le strade di Stefano e Franco. Non scriverà mai i loro veri cognomi, ma non è difficile intuire fin da subito che si chiamano Delle Chiaie e Freda. È un viaggio che ti porta ai confini della Jugoslavia, nel Triveneto dove ogni stanza è un covo di rossi o di neri, nelle rivendicazioni nazionaliste di Trieste, da cui si partirà poi per inseguire le arterie delle guerre sporche, dal Sudamerica fino al Libano. È quel mondo di uomini in grigio, di servizi segreti che gettano tensione sull’odio, muovendosi come fantasmi nelle retrovie e nelle teste dei rossi e dei neri, non importa che si chiamino Br o siano ballerini anarchici o facciano manovalanza per trame più grandi di loro. Tutti quanti si portano nel cuore una bestia irrazionale. «Sceso dagli alberi l’uomo primitivo si trovò davanti il deserto e le belve. C’era una bestia specializzata nella caccia all’uomo: il dinofelis. Un felino meno agile del ghepardo, ma di corporatura molto robusta. Sai cosa pensano alcuni antropologi? Che gli uomini, in certi periodi dell’anno, durante le piogge, quando tutta l’Africa era un pantano, fossero costretti a convivere con il dinofelis nelle stesse caverne. Ogni tanto si sentiva un ghigno, il felino allungava gli artigli e si mangiava un uomo \\\\\\\\ I primitivi non conoscevano ancora il fuoco e, per non morire tutti, dovevano stare dentro le grotte, al buio, aspettando il morso della bestia. Ognuno di noi ha una bestia dentro di sé».
Garlini è un metamorfo. Cerca di entrare nel corpo dei suoi personaggi, va alla ricerca dei pensieri più arcaici, delle loro paure, come si vedono e si rappresentano. Lo ha fatto inseguendo Pasolini in Futbol Bailado (2004), che resta il suo romanzo più intenso e magico. Lo ha fatto accarezzando la sensibilità di Pier Vittorio Tondelli, spirito fragile degli anni ’80, in Tutto il mondo ha voglia di ballare (2007). Questa volta s’immerge in un falò di illusioni che lasciano sul terreno solo cenere e macerie, consumando le speranze fino a farle diventare scarne come il più disperato cinismo.
Quella voglia di odio non si è ancora consumata. Prende altre forme, s’incarna in altri nemici. Non si sa se e come esploderà e a quale livello di combustione la disillusione, e le paure dei senza speranza, diventano terrore, piombo. Il dubbio è che i rossi e i neri abbiano messo in scena un grande gioco di ruolo, un reality della rivoluzione. Come dice un amico se ci fossero già stati i videogame forse si sarebbero ammazzati di meno.
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