Quando l’America di Bulli e pupe spopolò a suon di jazz

Il rock era ancora di là da venire, Torino si impigriva sotto il sole, movimentata dal tram numero 1 che rimorchiava la «giardiniera», una vettura cabriolet nata per prendere il fresco della corsa. La gente si lasciava vivere; i più arditi frequentavano night di moda come il Perroquet, al Ligure cantanti come Oscar Carboni e Otello Boccaccini modulavano Come è delizioso andar sulla carrozzella sotto la guida del maestro Filippini. Ma anche lì qualcosa si stava muovendo... C’erano personaggi «strani», carbonari che annusavano l’aria del jazz, ma ancora non si conoscevano tra loro. Il destino doveva metterci lo zampino. Non ci fosse stato l’Aldo Ferrari, figlio di uno chef di New York, Leo Chiosso non avrebbe conosciuto Fred Buscaglione e chissà che fine avrebbero fatto i due duri alla «boia fauss» che hanno segnato un pezzo di storia della canzone italiana? La risposta sta nel divertentissimo libro I giorni di Fred scritto dal grande Chiosso (scomparso lo scorso novembre) unito al dvd Sono il dritto di Chicago, Sugar Bean, che contiene le canzoni (nove più due caroselli) eseguite da Buscaglione nei programmi Rai. Troviamo il duro alla Eddie Constantine che cantava «Che botte quella notte/mi ricordo di 6 mascelle rotte/ho un sinistro da un quintale ed il destro ti dirò/solo un altro ce l’ha uguale ma l’ho messo ko». E quello sfigato alla Johnny Dortmunder che piagnucola in Eri piccola, oppure attacca spavaldamente con «Mi trovavo per la strada circa all’1 e 33/ l’altra notte mentre uscivo dal mio solito caffè/quando incontro un bel mammifero modello 103» e finisce, moscio moscio, con «Lei si volta poi mi squadra come fossi uno straccion/poi si mette bene in guardia come Rocky il gran campion/finta il destro e di sinistro lei mi incolla ad un lampion». Personaggi nati nelle notti al ristorante «L’imbattibile scudo», dove «abbiamo scritto valanghe di canzoni che hanno girato l’Italia senza la nostra firma - se la rideva Chiosso -; perché le vendevamo tutte. Questa sì che è goliardia. Barattare arte per un piatto di agnolotti». Personaggi nati dalla passione di Chiosso per l’America di Bulli e pupe ma anche dalla cronaca nera di tutti i giorni. «Fu Fred a capire che dovevamo personalizzare le canzoni, se nei libri si parlava delle pupe dei gangster noi dovevamo pensare alle commesse della Standa».
E alle musiche? Ci pensava Ferdinando Buscaglione, che aveva il jazz nel sangue, aveva suonato per gli americani e copiava da dio lo swing di Glenn Miller, citando le melodie di Gershwin e Porter e le musiche dei film di Ginger Rogers e Fred Astaire. È qui che torna in ballo l’Aldo Ferrari che un giorno raccontò agli amici: «A Torino c’è un ragazzino che suona il violino alla Joe Venuti e canta alla Louis Armstrong. Suona il contrabbasso nell’orchestrina del Ligure ma, quando i grandi fanno pausa, prende il violino e cambia tutto il disegno. Spara una Sweet Georgia Brown o una I Can’t Give You Anything But Love, questo sa improvvisare davvero». Via di corsa a sentirlo. Non faceva una grande impressione con quella giacca azzurra che gli pendeva da tutte le parti. Ma che meraviglia quando imbracciò il violino; partì con Polvere di stelle e proseguì con un crescendo di classici come I’m Confessin. «Mi ricordava un po’Joe Venuti - almanacca Chiosso - non c’erano santi, o se c’erano stavano sfilando in parata lungo la Basin Street di New Orleans a dispetto di quella Parlami d’amore Mariù che l’orchestra aveva ripreso a strimpellare». Il primo incontro fu prodromo di un lungo colpo di fulmine che solo la morte di Fred (e tre anni di guerra) potrà separare. Notti brave in una Torino notturna che pulsa di jazz (ci capitò persino Liza Minnelli con Armstrong e Chiosso scrisse una canzone per lui!) e di whisky facile («anche se Fred beveva solo vino rosso»). Dalla voglia di creare l’America in Italia «nacque una Torino che puzzava di Chicago anni Venti e un gangster piemontese dalla voce arrochita dal fumo».

Fred e Leo traviarono persino Gino Latilla; scrissero per lui la demenziale ante litteram Tchumbala Bey, e il melenso Latilla la interpretava dal vivo strappandosi i bottoni della camicia e rimanendo a torso nudo sul palco. «Per non rovinare una camicia a sera inserì un adesivo a strappo sotto la stoffa, e per non cantare seminudo per ore intonava Tchumbala Bey alla fine della serata».

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