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Quando l’architetto combina guai

Gli architetti in Italia sembra che preferiscano dimenticare di essere nelle città, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Torino, Bologna, Ravenna, Rimini, dove vi sono le più alte testimonianze del pensiero architettonico tradotto in opere. Parlo di pensiero perché è quello che sembra mancare oggi agli architetti: depensanti e ignari della storia. Chi lavora a Venezia deve pensare di misurarsi con Sansovino, Palladio, Sammicheli, Longhena, Massari; invece si muove come se alle spalle avesse il vuoto. Chi lavora a Firenze dovrebbe misurarsi con Giotto, con Alberti, con Michelangelo, con Vasari, invece compete con loro o li ignora. Chi è chiamato a Roma dovrebbe stare immobile, guardare, studiare, come ha fatto il Palladio, e sentire il vento dei secoli, dalla civiltà romana a quella medioevale, al Rinascimento, al Barocco, al Neoclassico in una ebbrezza senza fine. Ma non stanno fermi. Si agitano. Ed è stato timido il sindaco Alemanno nel confermare la sua avversità alla teca dell’Ara Pacis di Richard Meier. Non si può guardare, e non si vuole credere che qualcuno l’abbia concepita in totale disprezzo della città e in fiero contrasto con le sue belle architetture. Così per fare una fontanella con vasca si prepara la trappola per far cadere i turisti richiamati dall’Ara Pacis. Non solo essi inciampano e scivolano, ma il loro occhio, messo più a rischio delle loro gambe, è costretto a incrociare un incredibile muretto inutile e ingombrante che taglia a metà le due chiese nelle loro forme solenni, l’una manieristica, l’altra neoclassica, costringendoli a una veduta sofferente. E ciò che stupisce non è questa inutile violenza, ben evidente al sindaco Alemanno come a qualunque cittadino che ami Roma e i suoi monumenti senza retorica e pretendendone il rispetto, ma che Meier non le abbia neppure viste, che abbia costruito, stando lontano, la sua orrenda teca come un garage multipiano, come un condizionatore ingrandito, montandola a Roma come fosse un prefabbricato. Architetture come questa sono pensate per un altrove, non per il luogo reale dove dovrebbero insinuarsi tra le testimonianze preesistenti in modo armonioso. L’Ara Pacis è un delitto contro la civiltà e la storia e resta la testimonianza più prepotente di un fascismo architettonico che niente ha a che fare con la solenne architettura fascista. Un fascismo di pensiero che richiama opportunamente alla resistenza un sindaco di destra che non ha nessuna nostalgia fascista, e tanto meno del fascismo architettonico di un americano senza scrupoli che agisce in nome del dio danaro e che sarebbe stato maledetto da Ezra Pound. Su questo punto, contro questo orrore, non bisogna arretrare. Individuando in alcuni grandi architetti i veri nemici della cultura e delle città storiche.
A un livello minore, ma non senza arroganza, si pone il caso tanto discusso del Ponte di Calatrava a Venezia. Prima di tutto un ponte inutile, un gesto, un tentativo del sindaco colto di mostrare che Venezia non è una città finita, ma che si può continuare non contenti dell’orrore del nuovo Bauer e della Cassa di Risparmio in Campo Manin. Si può fare anche peggio. Perfino Carlo Scarpa, dopo essere morto, è stato forzato a restare nel triste intervento a San Sebastiano e nella deforme entrata dell’università di architettura, un infelice portale di cemento armato. Dopo il misurato intervento nel negozio Olivetti, anche Scarpa a Venezia aveva fallito. E non si sentiva la necessità di chiedere a Calatrava un ponte, costringendolo a dimensioni e a forme contenute per farsi vedere meno del previsto. Così ne è uscito un risultato modesto e che, provenendo da piazzale Roma, taglia il primo skyline del Canal Grande verso le chiese degli Scalzi e di San Simeon Piccolo. Non bastando l’inutile, si aggiunge il dannoso: e nell’illuminarlo dal basso si è determinato un altro effetto rischioso per i cittadini: non per la loro testa, questa volta, ma per i loro piedi, con il rischio di inciampare non riuscendo a vedere i gradini. Non si sa bene a cosa pensino gli architetti, oltre alla loro gloria, oltre a essere più visti che utili. Così appare, nel progetto, la minacciata pensilina di Isozaki agli Uffizi, ingombrante rispetto alle contigue logge vasariane. Così sono apparse le gocce di tal Cucinella a lambire piazza Maggiore a Bologna come due orinatoi, fortunatamente smantellati da Cofferati. Così i tre grattacieli minacciati alla Fiera di Milano e giustamente invisi a Berlusconi. I tre architetti stranieri che hanno forse tre volte passeggiato per Milano non hanno pensato alla città, alle sue necessità, alla sua tradizione architettonica con la quale dialogare, ma a far vedere forme che destassero stupore in una specie di luna-park architettonico (che è esattamente l’opposto della tradizione di Milano). Naturalmente le sovrintendenze e l’amministrazione comunale assistono impotenti a questa inutile ebbrezza, e sono attentissime a consentire la distruzione di architetture degli anni Venti e Trenta, degli stabilimenti storici dell’Alfa Romeo come del Teatro Lirico e a proibire la transitoria ruota di un vero luna park.

Così i nuovi architetti sono attesi come una rivelazione e trovano complici negli amministratori che disprezzano la storia e non amano le loro città.
Vittorio Sgarbi

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