Fedora Franzè
Gli Alviti sono due artisti fratelli, simili nelluniverso immaginativo, simili nella qualità delicata del tratto e nellattenzione allo sguardo dello spettatore. Sono due fratelli artisti, legati da unimpresa comune che intende rievocare latmosfera medievale della bottega darte, in cui le opere su commissione, strettamente connesse alloccasione, si alternano a lavori dautonoma origine e sviluppo. La mostra allarchivio di Stato ce li svela nella molteplicità di sfaccettature della loro sostanziale unità dintenti. I corpi di donne e uomini riportati alla propria qualità dombra, definiti da colori liquidi che trascinano unidea di corpo verso il basso, figure stillanti di colore, in Patrizio Alviti; i volti emersi dallespansione altrettanto liquida della stesura a macchie dacqua di Cristiano. Le immagini evocative, la leggerezza di tocco, si confanno perfettamente ad una consistenza corporea labile, già svanita come unimpronta. Il tema della memoria è svuotato di malinconia, di tempo carico, di pathos. In Cristiano Alviti è dominante listantaneità della visione, la sua sembra una galleria di ritratti dallinquadratura fotografica ravvicinata, che taglia la testa per privilegiare lespressione senza la sua cornice prevedibile, dallo sguardo intenso anche quando gli occhi sono bassi. Alcune pose gli piacciono e le ripropone con lievi varianti cromatiche, con minime rotazioni del capo, con effetti di luce che aumentano o allentano i contrasti. Nelle opere di Patrizio, che si allontana per fissare in immagine il corpo scelto a modello, supporti per lo più invisibili sostengono figure atteggiate plasticamente, còlte in momenti di riposo o di concentrazione o di abbandono sensuale. Per alcune figure maschili inarcate vengono in mente le soluzioni patinate di Mapplethorpe, calcolando la differenza tra una sensualità raggelata e nettissima nella definizione iperrealista e latmosfera sognante e rarefatta in cui i giovani artisti romani immergono i loro fantasmi. Si delinea una poetica del corpo assente, di cui restano luci, ombre, un alone intorno che sembra la traccia del calore, il ricordo caro. La baldanza di tocco che nella pittura antica si chiamava sprezzatura, trasposta in una visione contemporanea diventa rischio, volontà di trasgredire e di cercare limprendibile dentro immagini che tutti praticano con un certo mestiere. La fotografia ci restituisce la fedeltà dei tratti, larte deve andare oltre ed esplorare campi inediti.
Fino al 30 maggio, Archivio di Stato di Roma, corso del Rinascimento, 40. Orario: lunedì-venerdì 9-18; sabato 9-13. Ingresso gratuito.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.