Il volume Il territorio dellarchitettura di Vittorio Gregotti (Feltrinelli, pagg. 190, euro 11), scritto 40 anni fa, oggi ripresentato con unintroduzione ad hoc di Umberto Eco, riflette più che mai la tematica dellarchitettura specifica legata al territorio.
«Non si può rivoluzionare la società per mezzo dellarchitettura. Però potremmo comunque risolvere questultima. Questo è il nostro compito come architetti». Con queste parole Vittorio Gregotti cercò di spiegare che cosa fosse la «cosa» in cui si incarna larchitettura e come il progettare si inserisse in quel discorso che riguarda il sociale, la comunità il nostro modo di essere.
Il volume rimane di interesse assoluto perché negli anni Sessanta si cercava, anche ingenuamente con grande fervore intellettuale, di trovare una risposta alla modernità, a come le città si dovessero evolvere in unItalia che passava improvvisamente dalla società agricola a quella industriale. Non è un caso che il testo, quarantanni dopo il problema, rimane sul tappeto, posto esattamente come lo fu nel 1966, e che uno studioso del calibro del professor Vittorio Gregotti, docente di progettazione architettonica prima a Milano, poi a Palermo e infine a Venezia, ex direttore di Casabella e di Edilizia Moderna e noto architetto di fama internazionale, abbia recuperato quel suo testo.
Nel volume, come sottolinea nella prefazione Umberto Eco, «Gregotti cerca disperatamente di resistere ai bilanci e spera di riuscire a vivere abbastanza a lungo per fare esperienze nuove e diverse, capaci di dare un senso più preciso alle cose e ai sentimenti (persino quelli legati allabitare)»: un filosofia condivisa con il noto scrittore e semiologo.
Al di là della testimonianza storica il senso del testo di Gregotti va ricercato nelle sue opere, nei suoi lavori di architettura di questi quarantanni, «con tutte le loro positive ambiguità e con i piccolissimi frammenti di verità che da esse, talvolta, emergono».
Un testamento che non lascia dubbi su ciò che è stato il dibattito culturale italiano degli anni Sessanta, i riferimenti al battito strutturalista in corso allora in Francia e laggiornamento di certi problemi «di moda». Il sogno leonardesco dellarchitetto degli anni Cinquanta e latmosfera interdisciplinare e critica della nuova avanguardia.
Gregotti ha saputo cercare i punti di congiunzione che esistono sia sul piano dellarchitettura, sia su quello dellurbanistica; tanto su quello del disegnatore industriale, quanto su quello grafico, pubblicitario ed editoriale.
Nel libro Gregotti spiega perché il problema architettonico si inserisca tanto nettamente in quello del territorio della città, del paesaggio, del tessuto regionale. Larchitettura degli anni Cinquanta non si poneva il problema della città, ma il suo volume già allora si poneva la questione dei confini disciplinari. Restano i tentativi di comunicazione globale degli anni Sessanta.
Erano i tempi in cui Umberto Eco e Vittorio Gregotti collaboravano strettamente alla Triennale di Milano per unesposizione di arti applicate. Erano gli anni doro del design industriale italiano che, dalle automobili fino alle macchine da scrivere, ai portaceneri o alle posate, «dal cucchiaio alla città», lItalia si imponeva nel mondo e lanciava i suoi prodotti come opere darte culminate nei musei di New York.
A chiamare in causa le nuove utopie erano gli architetti riuniti intorno alla Triennale, come il Gruppo 63: Lucio Del Pezzo mostrava su grandi quadri testi di Antonio Gramsci, Enrico Baj faceva da contrappunto con robot fatiscenti; non mancavano riflessioni sul gioco di Shiller. Larchitettura rappresentava un modo di costruire un senso.
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